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Frammenti di memoria

Frammenti

Nel 1276 a Corigliano vivevano 800 famiglie (fuochi) pari a circa 3600 individui (i fuochi erano i nuclei familiari tassabili)

Nel 1561 a Corigliano vivevano 1175 famiglie (fuochi) pari a circa 5290 abitanti)

 

Nel 1595 a Corigliano vivevano 1453 famiglie (fuochi) pari a circa 6540 abitanti)

 

Nel 1616 a Corigliano vivevano 1469 famiglie (fuochi) pari a circa 6570 individui

 

Nel 1648, Corigliano conta circa 5600 abitanti

 

Nel 1669 a Corigliano vivevano 1325 famiglie (fuochi) pari a circa 5970 individui (il calo demografico era dovuto a tante vicissitudini. Tra le altre, una grande epidemia, soprusi feudali, terreni paludosi e pochi matrimoni a causa di carestie)

  

Nel 1705 a Corigliano vivevano 1453 famiglie (fuochi) pari a circa 6500 individui

 

Nel 1720 a Corigliano vivevano 1711 famiglie (fuochi) pari a circa 7706 individui

 

Nel 1735 a Corigliano vivevano 1343 famiglie (fuochi) pari a circa 6.050 individui)

 

Nel 1743, Corigliano conta 6761 abitanti (3321 maschi e 3440 donne)

 

Nel 1812, Corigliano conta circa 8000

 

Nel 1823, Corigliano conta 8486

 

nel 1831, Corigliano conta 8353

 

Nel 1835, Corigliano conta 8.514 abitanti 

 

Nel 1845, Corigliano conta 10.127 abitanti 

 

Nel 1861, Corigliano conta10.694 abitanti

 

Nel 1871, Corigliano conta 10.245 abitanti

 

Nel 1877, Corigliano conta 10.572 abitanti

 

Nel 1881 Corigliano conta 12.461 abitanti

 

Nel 1896 Corigliano conta 14.556 abitanti

 

Nel 1901 Corigliano conta 15.379 abitanti

 

Nel 1905 Corigliano conta 15.379 abitanti

 

Nel 1911, Corigliano conta 16.338 abitanti

 

Nel 1914, Corigliano conta 16.888 abitanti

 

Nel 1921, Corigliano conta 16.193 abitanti

 

Nel 1931, Corigliano conta 15.842 abitanti

 

Nel 1936, Corigliano conta 16.285 abitanti

 

Nel 1951, Corigliano conta 21.256 abitanti

 

Nel 1961, Corigliano conta 24.317 abitanti

 

Nel 1968, Corigliano conta 28.580 abitanti

 

Nel 1971, Corigliano conta 30.633 abitanti

 

Nel 1981, Corigliano conta 34.750 abitanti

 

Nel 1991, Corigliano conta 35.615 abitanti

 

Nel 2001, Corigliano conta 38.241 abitanti

 

Nel 2011, Corigliano conta 38.501 abitanti

Molti di dati, riguardanti il '600 e il '700, li ho presi da "Il ducato di Corigliano" di Antonello Savaglio.

Crescita demografica di Corigliano(1704-1707)

Le traversie di casa Saluzzo e le azioni delinquenziali, tra cui lo stupro di Felicia Micca, non impedirono la crescita demografica di Corigliano che nei primi anni del Settecento contava 1.453 fuochi (circa 6.500 individui) con un aumento di 128 nuclei familiari (intorno a 570 persone) rispetto alla numerazione fiscale del 1669. Era quella, però, una società chiusa dove i matrimoni facevano registrare una scarsa mobilità geografica dei nubendi. Dall'esame dei registri parrocchiali di S. Maria Maggiore risulta che nel quinquennio 1700-1704 furono celebrati 90 matrimoni, con una media di 18 all'anno, ma solo 13 mariti provenivano da luoghi diversi da Corigliano: 4 da Rossano, 2 da S. Giorgio e Rovito ed i restanti 5 da Acri, Cassano, Guardia, Longobucco e S. Marco. Rispetto alle nascite, dalla stessa fonte si apprende che nel quadriennio 1704 -1707 vennero alla luce 318 bambini, con una media annua di 79,5 parti. La natalità maggiore era concentrata nei mesi di gennaio e febbraio (84 nascite) con concepimenti tra aprile e maggio, e si riduceva nel trimestre giugno-agosto (60 nascite), con concepimenti tra la fine dell'estate e l'inizio dell'autunno, in un periodo di intensi lavori agricoli che indebolivano gli uomini facendo scemare l'attività sessuale. Le nascite non diminuivano invece nel mese di dicembre, con concepimenti a marzo e quindi in piena Quaresima, ad indicazione del mancato rispetto del precetto ecclesiastico che prescriveva l'astinenza sessuale.

Stagionalità delle nascite dal 1704 al 1707
Mese di concepimento nascita numero nati
Aprile Gennaio 46
Maggio Febbraio 38
Giugno Marzo 15
Luglio Aprile 26
Agosto Maggio 21
Settembre Giugno 18
Ottobre Luglio 26
Novembre Agosto 16
Dicembre Settembre 25
Gennaio Ottobre 26
Febbraio Novembre 39
Marzo Dicembre 25

 Per molti di questi neonati la vita fu brevissima. A Corigliano la mortalità infantile, come nel resto della regione, era molto elevata e nel quinquennio 1706 - 1710 su 338 morti tumulati nella parrocchia di S. Maria Maggiore, ben 163 (il 48%) erano bambini. Per coloro che riuscivano a superare il 6 anno di età la vita media si allungava fino a 45 anni e solo pochi superavano gli ottanta. Tra le donne più anziane decedute in questo periodo e registrate dal parroco di S. Maria, il primato della longevità era delle novantenni Vittoria Campanaro e Maria Bocchigliero, seguite 4 Beatrice Amorosa (85), Dianora De Sena (84)e Lucrezia Tosto (80). Tra gli uomini solo Scipione Grisafi toccò gli 80 anni e, morto il 10 gennaio 1710, fu inumato nella cappella della congrega del SS. Rosario."

Indigenti a Corigliano agli inizi '800

 

V’è un quadro di complessiva desolazione nella nostra regione, agli inizi del secolo scorso, per quanto attiene alle condizioni economiche e sociali di chi l'abita. Su una popolazione, infatti, di 792.601 anime, stante il censimento del 1813, si contano 35.890 mendichi, pari al 4,53 per cento. La mendicità non è, peraltro, un fatto isolato. Ad essa si accompagnano una forte mortalità maschile ed infantile ed un tasso ragguardevole di nati illegittimi. Malsane risultano le condizioni abitative e di lavoro ed insufficiente l'alimentazione. In tali dati rientra anche la comunità coriglianese, al cui interno, nella stessa epoca e nella migliore delle ipotesi, un salariato, a mo' d'esempio, percepisce mediamente in natura ed in danaro le stesse razioni e somme d'un secolo prima, a fronte d'un aumento generalizzato del costo della vita. Evidentemente, alcuni eventi eccezionali, quali il saccheggio ad opera dei Francesi dell'agosto del 1806, nonché le alluvioni del marzo 1810 e del novembre del 1811, in aggiunta a difficoltà strutturali, aggravano una situazione già precaria. Nello spazio di un anno, dal- l'aprile del 1816 allo stesso mese del 1817, il Decurionato prende in esame lo stato economico-sociale della città e cerca di porvi rimedio. Il quadro che emerge del tessuto umano è sconfortante e, per certo aspetto, drammatico. Il 14 aprile del 1816, così, riconosciuta "l'attuale disgraziata e penuriosa stagione", le autorità comunali decidono di aumentare considerevolmente il sussidio elargito agli indigenti, ritenuto assolutamente insufficiente. Se si pensa che il fondo di sovvenzione, fermo a 300 ducati, viene d'un colpo portato a ducati 600, si ha l'idea dello spessore e della visibilità di tanta miseria. Non si tratta di integrare il salario di un sotto-occupato o di offrire una garanzia temporanea a disoccupati, bensì di assicurare "l'esistenza e la vita di tanti infelici". E' facile immaginare che si ha a che fare con indigenti assoluti, mancanti di qualsiasi sostentamento e, fors'anche, di ricovero, come si vedrà più avanti. Giusto un anno appresso, il 6 aprile del 1817, il Decurionato riesamina la questione ed essa è, di fatto, peggiorata. Sono numerosi, infatti, gli "sventurati" che vivono esclusivamente di elemosina e che consunti, poi, dall'estrema povertà e dalle malattie, si lasciano morire "in mezzo alle pubbliche strade". Altri, egualmente avviliti, preferiscono andare a morire fuori del centro abitato, "vicino alle calde ceneri del fuoco delle fabbriche della liquirizia", nei pressi del Ponte Margherita, tra il Carmine e il Pendino, ove erano site le fabbriche stesse. I motivi di tale scelta sono tanti e tutti riconducibili al senso della dignità ed all'istinto di conservazione. Questi miserabili non possono oltre stendere la mano agli stessi passanti, impedendoglielo un residuo pudore, né d'altra parte, vogliono rinunciare alla speranza. Perciò scelgono la via, come dire, dell'esilio, trasferendosi alle porte del paese, dove, all'interno delle fabbriche di liquirizia e tutt'intorno ad esse, da novembre a giugno, v'è come un piccolo villaggio, con centinaia di operai, per lo più provenienti, con le proprie mogli, dai paesi della cintura cosentina. Qui, gli infelici questuanti hanno la certezza di trascorrere la notte al tepore dei forni ed il miraggio di sfamarsi, all'ora del pasto, con un tozzo di pane duro o con un pezzetto di dolce radice. Il testimone di allora annota che "un simile spettacolo forma l'oggetto più doloroso della pubblica compassione", ma riferisce ancora che anche lì muoiono in tanti, a ridosso dei Conci, come già gli altri nelle strade del paese. Evidentemente, il fondo di sovvenzione e la comune pietà, da una parte, e la forza della conservazione, dall'altra, ancorché encomiabili, non bastano ad allontanare la triste miseria e lo spettro della morte. Occorrono riforme planetarie, che, forse, mai ci saranno, ma che, nondimeno, dobbiamo sempre auspicare. E, nel contempo, si scavi nel passato, per mostrarne anche lo squallore.

(Giulio Iudicissa) 

1720 - Gli artigiani a Corigliano
Tra gli artigiani i più numerosi erano:

10  calzolai

7    barbieri

6    falegnami

4    fabbri

3    panettieri

1    orefice

1    tintore

(fonte: Il ducato di Corigliano di Antonello Savaglio p.149)

1720 - Commercianti e dottori a Corigliano

16 dottori

9   negozianti

4   mastri muratori

7   notai

4   speziali

3   agrimensori

(fonte: Il ducato di Corigliano di Antonello Savaglio p.150)

La Malaria

Nel 1743, la superficie boschiva del territorio di Corigliano è di 18.926,6 tomolate; nel 1831, è di tom. 14.429. Le cause di questa drastica diminuzione vanno ricercate nei tagli operati nel '700, durante il periodo francese, negli anni '20. Perciò, la situazione in pianura diviene sempre più allarmante. I fiumi portano a valle, durante la stagione invernale, sabbia, pietre e altro materiale. Straripando, distruggono giardini, oliveti, terreni seminativi e quanto altro incontrano. È il caso del Coriglianeto, del Cino e di altri torrenti minori del territorio. Le acque ristagnano e i terreni diventano paludosi. La pianura diviene terra di malaria. Negli anni che vanno dal 1816 al 1861, si cerca di correre ai ripari, sia con leggi emanate dai Borboni, sia con provvedimenti del Decurionato. Si cerca di ricomporre il manto boschivo per risolvere a monte il problema, ma passeranno ancora circa novant'anni dall'Unità d'Italia per debellare definitivamente il plasmodium.
(E.Cumino)

I progressi della situazione igienico-sanitaria da1885 a 1902

 

1885

L'analisi della situazione igienica di Corigliano Cal. del dott. Patari nel 1885,contenuta in una relazione destinata agli amministratori comunali dell'epoca.

"Mancano le fogne e tutto viene ammucchiato lungo le strade, dalle quali provengono esalazioni nocive che al levare del sole ed al tramonto assumono l'aspetto di leggera nebbia, nociva alla salute... L'ileo tifo si manifesta in tutto l'anno, anche per la mancanza di acqua che presenta una dotazione di 12 o 13 mila litri al giorno, contro una popolazione di 14 mila abitanti... La pustola maligna, la meningite cerebro-spinale, il tifo mietono 400 individui all'anno e la vita media è appena di 31 anni e dieci mesi". Il Patari si soffermava poi sullo stato di miseria indotto dalla malaria, che fomentava l'ignoranza e nello stesso tempo favoriva il latifondo, la pastorizia ed un assetto sociale primitivo. La malaria infieriva proprio quando maggiore era il bisogno del lavoro agreste e quando questo poteva essere più proficuo.

 

1902

Alla fine del Ì902 il dott. Vincenzo Fiore, nella sua veste di Ufficiale Sanitario, inviava alla Prefettura di Cosenza un ampio rapporto sullo stato sanitario del Comune, nel quale si metteva in evidenza che:

1) L'emigrazione era continua e si verificava in tutti i mesi dell'anno. 2) L'assistenza e vigilanza sanitaria veniva espletata, oltre che da lui stesso, dai medici Francesco Spezzano, Luigi Patari, Giuseppe Fino e Antonio Cimino; dai farmacisti Ferdinando Avella, Gennaro Varcaro, Luigi Redi, Giuseppe Milano, quest'ultimo autorizzato dal Ministero, gli altri tutti laureati; dalla levatrice Annina Cerignola, laureata, che copriva la condotta con uno stipendo annuo di L. 700; dai veterinari Antonio Ferri e Francesco Quintieri, entrambi laureati; mancavano i dentisti e la condotta medica, istituita fin dal 1888, veniva esercitata a turno dai medici locali, con uno stipendio annuo di L. 500, per i soli poveri e senza capitolato.

3)Le farmacie erano quattro, ben tenute e ricche di farmaci, come rilevato da una visita sanitaria. Tre erano dirette dai proprietari e quella di Milano Giuseppe da Domenico Armentano. Esse rimontavano tutte ad epoca anteriore al 1888 e nessuna aveva subito interruzione nell'esercizio.

4)Tutti gli spacci di sostanze alimentari erano visitati continuamente dal vigile sanitario. La macellazione veniva sorvegliata dal veterinario ed il numero approssimativo degli animali macellati era di 40 vaccini, 400 suini e circa 840 ovini. Non si segnalavano inconvenienti.

5)Per quanto riguarda l'igiene del suolo, la situazione era la seguente: circa 500 erano gli ettari di terreno perennemente impaludati, ubicati in diverse zone del territorio comunale. Tutte le altre zone di terreno che costituivano la pianura del territorio si impaludavano all'epoca delle piogge, ad eccezione dei circa 100 ettari di terreno irriguo che si estendevano lungo le sponde del fiume Coriglianeto. Circa 2000 ettari, divisi in diverse zone sulle colline, costituivano i terreni boscosi. Poco distante dall'abitato scorreva il Coriglianeto, che al tempo delle piogge straripava facilmente con immensi danni per i giardini e i terreni olivetati e seminativi. Altri fiumi, distanti dal centro abitato, erano il Crati, Fiumarella, Malfrancati e Cino che arrecavano immensi danni in tempi di piogge dirette e continue. La coltivazione del lino e della canapa era andata in disuso da diversi anni ed i terreni erano stati adibiti ad altre colture.

6)Per l'igiene dell'abitato si segnalava che le case erano agglomerate, spesso alte fino a quattro piani, provviste di fognature. Ove queste non esistono si provvedeva al trasporto delle acque e del materiale di rifiuto in "gettiere" pubbliche ben condizionate e alquanto distanti dall'abitato. La fognatura pubblica sboccava nel Coriglianeto in quattro punti diversi. Per i lavaggi degli oggetti d'uso, gli abitanti si servivano del fiume Coriglianeto. Il paese era intersecato da strade larghe e vicoli pavimentati da ciottoli, con cinque piazze. Esistevano tre stalle pubbliche e numerose private. L'industria era rappresentata alquanto largamente e nei diversi stabilimenti si fabbricavano olii, liquirizia e pasta, oltre alla centrale elettrica che forniva di luce il paese ed alimentava un mulino. In detti stabilimenti lavorava un discreto numero di uomini. Il paese è illuminato da luce elettrica per cui si spendono circa 8000 lire all'anno. Le scuole maschili e femminili erano collocate in tre vasti edifici, ex conventi. Alle elementari si trovano iscritti circa 300 alunni ed altri 120 circa al Ginnasio. Nei diversi bilanci del Comune si trovano stanziati circa 30 mila lire per adattamento dei locali e materiale scolastico.

7)Per quanto riguarda l'acqua potabile essa veniva da due fonti naturali che scaturiscono da rocce site in contrada Bosco dell'Acqua e Palombella, distanti dal paese circa cinque chilometri e nella quantità di circa 400 litri al minuto primo. Le condutture in ghisa attraversavano i terreni coltivati di diverse contrade alla profondità di circa due metri. Il Comune per tali condutture, funzionanti da un anno, ha già speso 21 mila lire.

8)Al seppellimento dei cadaveri del Comune e delle frazioni si provvedeva col cimitero, esteso per due ettari e cinto di muri alti tre metri. E' provvisto di ossario e stanza per custode, della camera mortuaria e di una buona camera per le autopsie. Il terreno era di natura argillosa e l'acqua del sottofondo emergeva superficialmente per circa la metà in tempo di pioggia. Vi erano sei locali costruiti per sodalizi religiosi forniti di fosse carnarie. L'abitazione del custode era nel cimitero stesso e teneva il registro disposto dall'ari 50 del regolamento sanitario.

9)Le infezioni palustri erano frequenti. Di altre infezioni, tranne rari casi, non si avevano forme epidemiche.

10)Come riportato dal registro delle tasse sul bestiame, l'allevamento era diffuso in diverse zone del territorio. I bovini erano circa 2000, gli equini 250 e gli ovini circa 9000. Bovini ed ovini solevano essere mandati d'estate in Sila. La malattia che predominava negli animali era il carbonchio, che si sviluppava qua e là nel territorio senza arrecare gravi danni, perché gli interessati del Comune prendevano gli opportuni provvedimenti per circoscrivere il male. Si tenevano due fiere annuali nel locale della Schiavonea ad epoca stabilita, una la prima domenica di maggio e l'altra il primo novembre. Nel paese non si fanno mercati di animali. Confrontando questo rapporto del dott. Fiore, con quello ricordato all'inizio del dott. Patari, appare evidente il grande progresso compiuto in circa 18 anni nel settore sanitario, dal miglioramento delle risorse idriche a quello più generale dell'igiene pubblica. Intanto, Vincenzo Fiore, proseguendo nella sua attività professionale, continuava a frequentare con assiduità parecchie cliniche dell'ospedale de' Pellegrini di Napoli, stando sempre a contatto con i suoi vecchi maestri e giovandosi quotidianamente della loro pratica e dei loro consigli. Ne seguivano certificati di lode e d'incoraggiamento rilasciati da illustri professori, come il Meola per la ginecologia, il De Vincenzis e il Guaglianetti per l'oculistica. Nel 1914, dopo anni di auspici e tentativi, sorgeva a Corigliano, nei locali a pianterreno dell'ex convento di S. Francesco, una "piccola infermeria" amministrata dalla Congregazione di Carità. Tutti i medici cittadini risposero positivamente all'invito di curare gratuitamente i poveri ricoverati. Essi furono: Francesco Gianzi, Vincenzo Varcaro, Antonio Cimino, Nicola Tricarico, Domenico Fino, Pasquale Noce, Giuseppe Cimino, Vincenzo Fiore, Michele Persiani, Luca Policastri. Ma mentre l'ospedale cominciava a funzionare scoppiava la guerra. Molti medici vennero chiamati alle armi e il peso dell'infermeria ricadde sul dott. Fiore. E' in questo periodo che Ostilio Lucarini gli dedicò le raccolte di poesie "L'anima al vento" e "Su l'aurea soglia". Con il Fiore ebbe inizio l'attività chirurgica dell'Istituto e si eseguirono le prime operazioni. Intanto nuove leve di medici si venivano ad aggiungere al nucleo iniziale. Tra essi Giordano Bruno, Sangregorio Sangregorio, Battista Marino, Marcello Cimino, Francesco Dima, Francesco Persiani e, sia pur lentamente, si concretizzava la realizzazione dell'ospedale che poi sarebbe stato dedicato a Guido Compagna. Frattanto Vincenzo Fiore nel 1927 convolava a nozze con Maria Cortese, nipote del compianto amico prof. Nicola Giannattasio e durante il viaggio di nozze perdeva la madre, Filomena Cimino. L'anno seguente un altro duro lutto colpiva la moglie, con la morte della madre, Felicetta Giannattasio, vedova di Luigi Cortese, ex Procuratore del Re a Reggio, ove il terremoto del 1908 lo aveva travolto assieme alla sua casa. Nel 1930 casa Fiore fu allietata  dalla nascita di una bambina alla quale fu imposto il nome della nonna paterna, Filomena. Fu in questo periodo che Vincenzo Fiore rinsalda la sua amicizia con il grande poeta Francesco Maradea, che divenne precettore della figlia e gli fu vicino nella serena vecchiaia, compagno di lunghe discussioni sull'arte e sulla poesia. Il Maradea moriva nel 1941, Vincenzo Fiore scompariva il 26 luglio del 1945. L'opinione pubblica, che può essere fuorviata ma mai ingannata, aveva da tempo concordamente affermato e consacrato il galantomismo di "don" Vincenzo Fiore. Galantomismo inteso come volontà nel dovere, che si esplica con la pratica della giustizia e con l'ossequio alla verità. Fu un uomo pubblico che passò lo stige della maldicenza a piedi asciutti. Ed il suo nome, pur non essendo legato a nessun clamoroso avvenimento di vita cittadina, è restato nella memoria, per il fascino morale che emana dalla silenziosa bellezza di chi amministra in giustizia, di chi spende il denaro pubblico in economia, di chi fa a meno di benserviti, di lodi e di onorificenze. 

(Domenico Brunetti dal Serratore)

La Scuola elementare a Corigliano Calabro


Le notizie più remote sull'istruzione primaria in Corigliano risalgono al 1815. In quell'anno, frequentano la Scuola pubblica maschile trentacinque alunni, dagli otto ai ventidue anni, sotto la guida del maestro Giuseppe Schiavelli. Nel 1836, sono aperte anche due Scuole private, tenute dai maestri don Tommaso Spezzano e don Andrea Bombini. Agli inizi del 1840, viene chiamato in Corigliano il giovane sacerdote e maestro Giovanni Girone, da Morano Calabro, versatile nelle discipline umanistiche e profondo matematico. Il suo Cenacolo accoglie tantissimi giovani, che seguono con grande partecipazione il Maestro, educatore aperto alle idee liberali che attraversano in questo periodo la Penisola. Proprio per questi suoi ideali, il Girone dal 1848 viene perseguitato dalla Polizia per cui chiede protezione al barone Luigi Compagna. Accolto nella casa dell'uomo più influente di Corigliano, il Girone continua la sua opera di educatore fino al termine della sua vita . Nel 1845, la Scuola primaria viene posta nel convento dei Riformati e il padre Giannantonio da Longobucco sostituisce il maestro Nietti. Nel 1856, don Antonio Linardi insegna ai ragazzi delle elementari, mentre don Pietro Antonio Mollo agli alunni della Scuola secondaria. Le alunne delle Scuole femminili sono seguite dalle maestre Maria Teresa Leonetti e Teresa Saliceti. Nel 1861, con la nuova realtà nazionale, nascono i Distretti scolastici, che hanno il compito di formare i maestri già in servizio con corsi trimestrali da tenersi presso una Scuola Magistrale. A Rossano, vanno a frequentare tali corsi i maestri coriglianesi Antonio Linardi e Salvatore Policastri, che chiedono ed ottengono dal sindaco un'indennità di dieci ducati sullo stipendio. Nel 1865, i maestri «muniti di patente» sono: Lorenzo Masini (1a elementare), Antonio Policastri (2a elem.) Carlo fazio (3a elem.). Nel 1871, il Consiglio comunale delibera di far svolgere le lezioni del corso superiore nei locali del Ginnasio «Garopoli». Alcuni anni dopo, l'istruzione elementare inferiore diventa obbligatoria, mentre è facoltativa quella superiore. Essendo nel 1877 gli abitanti di Corigliano 10.572, bisogna nominare altri due maestri. Le spese sono tante per il Comune e i maestri operano spesso in mezzo a grosse difficoltà. Il maestro Clemente Gagliardi (2a elem.), pur con 67 alunni, senza banchi, cartelloni e lavagna, riesce a cogliere buoni frutti dai suoi allievi a fine anno (1880). Le classi maschili sono ubicate nell'ex-convento dei Minimi (S. Francesco); le classi femminili nell'ex-convento dei Riformati. Il 26 dicembre 1890, viene nominato il primo Direttore didattico di Corigliano, Alessandro Dragosei. Su richiesta degli abitanti del nuovo borgo sorto presso lo Scalo ferroviario, viene istituita, intanto, una Scuola elementare mista alla Stazione. Pur tra le opposizioni del Consiglio comunale, provato da ricorrenti crisi finanziarie, la Scuola nasce e prospera, sotto la guida della maestra Clotilde De Pasquale di Cosenza. Nonostante gli sforzi enormi del Comune, soprattutto sul piano economico, e la buona volontà di maestri totalmente dediti alla loro missione, congiunti alle sollecitazioni del Governo e dei suoi rappresentanti periferici, le Scuole elementari in Corigliano, come nel resto dei comuni del Meridione, non svolgono in pieno quella funzione cui sono chiamate dal dettato delle leggi. La colpa è dei tempi, dell'ignoranza, del bisogno, della fame. Pochi sono i bambini che frequentano la 1a classe elementare; pochissimi quelli delle seconde classi; tra i sette e gli otto anni i ragazzi debbono seguire i genitori nei lavori dei campi o delle officine, per aiutare la famiglia a... tirare avanti.

(Enzo Cumino)

 

Lo Scalo: una storia da scrivere

 

L'apertura al traffico della sta- zione ferroviaria di Corìgliano, costruita in località Querce di Morgia di contrada San Francesco risale alla fine del 1869. Il posto non è il più indicato, perché all'epoca era infestato da malviventi e briganti. Nel 1871 è istituito il primo servizio di vettura per trasportare pacchi e "dispacci postali " dalla stazione al centro abitato. In quegli anni sorgono vicino alla stazione le prime due costruzioni, ancora oggi esistenti: palazzo De Rosis e palazzo Pedatella. E'proprio in quest'ultimo edificio che Giacinto De Pasquale apre una piccola trattoria nel 1918. In seguito acquista un terreno limitrofo e costruisce un fabbricato che ospiterà l'albergo De Pasquale, per decenni punto di riferimento per viaggiatori, cacciatori, artisti, commercianti che arrivavano a Corigliano. Nel 1929 i fratelli Francesco e Gennaro Scura istituiscono il primo collegamento Scalo-Centro mediante un "postale". In quello stesso anno i fratelli Giuseppe e Salvatore Dragotta aprono una fabbrica per la lavorazione del pomodoro. Per le non favorevoli condizioni climatiche, comunque, la frazione rimase a lungo poco abitata. II censimento del 1951 registra per lo Scalo solo 551 residenti. Il grande cambiamento avviene a partire dagli anni settanta, quando le migliorate condizioni economiche e ambientali determinano un vero e proprio boom edilizio che ci consegna lo Scalo di oggi, caotico e disordinato, ma vitale, ricco di potenzialità, centro economico dell'economia coriglianese. Per anni gli "scalesi" sono stati un mondo a parte rispetto ai "coriglianesi". Avevano una loro specificità, consuetudini e tradizioni proprie, usi e costumi derivati da una "mescolanza" che racchiudeva le esigenze dei tanti immigrati che si stabilivano in quel posto.

(E. Viteritti)

Corigliano e l'assistenza sanitaria nel tempo

Nel campo dell’assistenza sanitaria, Corigliano segue le discipline dei tempi. La medicina empirica e poi quella razionale vengono applicate dalla nascita della città. I medici empirici prima ed unitamente ai medici monaci poi svolgono la loro missione contro il dramma della morte...L’erboristica, disciplina conseguente la medicina empirica e razionale, è di grande applicazione fino al secondo dopoguerra di questo secolo ed oggi è, purtroppo, trascurata oltre la convenienza per l’eccessivo uso di farmaci, aspetto anche questo dello sfrenato consumismo in atto. Sorte le università degli studi di Salerno e di Napoli, a Corigliano esercitano anche medici col titolo accademico, fra i quali rinveniamo professionisti di estremo valore nel campo della ricerca scientifica che caratterizza la medicina moderna...Relativamente all’assistenza sanitaria difficoltà ovvie incontrano i poveri della città, i quali, quando non sono abbandonati al loro destino, vengono curati dai religiosi dei vari ordini esistenti o per la pietà di caritatevoli cittadini ricchi. Cosicché il problema dell’assistenza medica ai poveri si pone e, grosso modo, viene risolto con la fondazione dell’Ospitale Bene Fratelli di S. Giovanni di Dio. Tale struttura viene realizzata negli anni 1561-62 per volere del Rev. Dominus D.Jo: Tommaso Perrone, il quale dona, per il relativo adattamento, un suo trappeto in località S. Angelo, attuale rione Pignatari...Viene gestito da Monaci di S. Giovanni di Dio con fondi da donazioni e lasciti di cittadini benestanti...Il Bene Fratelli viene soppresso il 7. 8. 1809 per decreto napoleonico. Dal 1809 l’assistenza sanitaria ai meno abbienti ritorna alla situazione antecedente al 1561 fino al 1914...Per volere del sindaco pro tempore avv. V. Fino il nuovo ospedale sorge nei locali dell’ex convento dei Minimi il 1914...Con il trascorrere degli anni esso si appalesa insufficiente per le esigenze di una città che cresce. Così il 1930, sotto l’amministrazione podestarile dell’avv. G. Fino, si iniziano i lavori del “Guido Compagna” per adattamento dell’ex convento dei Cappuccini...Il plesso viene inaugurato il 1937 (e nel tempo) subisce notevoli ampliamenti...oggi, il G. Compagna è un ospedale di tutto rispetto.

(Mullichelle, Pasquale Tramonti, 2004)

Una storia d’acqua e di politica a Corigliano nell’ottocento

di Giulio Iudicissa

 

D'acqua, allora, in paese ve n'era poca ed i cittadini, per le loro necessità, l'attingevano alle pubbliche fontane, dislocate qua e là nei popolosi rioni. Come ovunque accadeva, anche a Corigliano ci si ingegnava a trovar nuove "sorgive", per far fronte alla popolazione che cresceva e ai bisogni che aumentavano, non sempre, però, gli sforzi sortivano gli effetti e ciò più per difetto di mezzi che per incuria degli uomini. A volte, comunque, le autorità e i cittadini guardavano ai problemi con occhio diverso e, non riuscendo a raccordarsi, cadevano nella reciproca incomprensione e nel litigio. Esemplare questa storia coriglianese del 1880, una storia d'acqua e di politica, dalla quale ognuno può trarre il succo che vuole. Nel novembre di quell'anno, dunque, il consiglio comunale si aduna in via straordinaria, per deliberare circa l'eventualità di concedere l'uso dell'acqua potabile "ai cittadini che ne fanno dimanda". E' un fatto di straordinaria portata storica per la città. Bisogna, infatti, decidere se l'acqua debba continuare ad essere erogata solo a mezzo delle fontanine pubbliche oppure debba essere portata nelle singole abitazioni. La risposta sembrerebbe ovvia. In ogni rione ci dovrebbe essere una fontana a dissetare passanti e forestieri ed in tutte le case dovrebbe arrivare una canna d'acqua, per far fronte ai servizi igienici ed a quant'altro occorra. Senonchè, avere l'una e l'altra cosa non lo consentono le finanze comunali e quelle ancor più magre dei cittadini. Da ciò il dibattito comunale, che inevitabilmente si trasferisce nelle case e nelle piazze. Come al solito, introno alla questione, si formano due partiti, "Alcuni consiglieri rilevarono che, atteso l'allacciamento delle due sorgive di Migluri e Scorpaniti, niun dubbio è d'ammettersi sull'aumento del volume delle acque potabili, in modo che, potendosi benissimo soddisfare l'esigenza del pubblico mercé altra distribuzione di esse in diversi punti dell'abitato, nulla osta alla concessione ai cittadini per uso privato". Per contro, v'è una parte di consiglieri di diverso avviso, i quali osservano "che pria d'addivenire a private concessioni, è uopo provvedere alla distribuzione delle acque con l'impianto di nuove fontane pubbliche in altri punti dell'abitato, per commodo e vantaggio della cittadinanza, mentre, diversamente operandosi, si verrebbe ad anteporre l'interesse privato al pubblico". Prevale il primo partito, cosicché si delibera la concessione dell'acqua potabile "a quei cittadini che ne faranno domanda, per com modo delle rispettive abitazioni, contro il pagamento di un canone annuo,, che non potrà essere minore di L. 20, oltre al pagamento di altre L. 100 all'atto della concessione, per una sola volta, a titolo di laudèmio (tassa)". Quantunque il provvedimento contenga l'impegno, da parte del comune ad aumentare contestualmente le fontane nel paese, a vantaggio della cittadinanza tutta, esso appare viziato di particolarismo. C'è il sospetto che alcune famiglie benestanti avranno subito l'acqua nelle proprie abitazioni, mentre il numero delle fontane pubbliche non aumenterà, in quanto le sorgenti disponibili a stento soddisfano il fabbisogno attuale, con forte disagio, soprattutto nei mesi estivi. Nella disputa interviene l'Associazione di Mutuo soccorso fra gli Operai di Corigliano Calabro, con un ricorso al Prefetto della provincia di Cosenza, per contraddire la sostanza del provvedimento "che urta la generalità dei cittadini e favorisce la classe dei proprietari, dovendosi pria guardare i bisogni del paese e poi provvedere i privati (dal momento che l'acqua) è il primo alimento dell'uomo". Viene accolta, alla fine, la tesi dei ricorrenti e, di conseguenza, si sospende il provvedimento. Se ne riparlerà dopo alcuni anni, quando maggiori saranno le risorse di acqua e di finanza. Del fatto resta traccia negli archivi comunali, purtroppo, poco conosciuti e assai poco frequentati. Lo segnaliamo nella sua emblematicità, perché si veda quanto difficile sia stato arrivare alle odierne conquiste.

 

Il macello e l'ospedale      

 

 

Ho visitato Corigliano, in un mattino di giugno, appena dopo la visita delle Loro Altezze Reali. Dalle mura delle antiche case, attestanti con enormi caratteri e con manifesti multicolori la devozione per gli Augusti Principi e per la Casa Regnante, dal volto degli abitanti, con nell'animo e negli occhi la visione del recente avvenimento, traspariva la delicata e forte tempra di questa gente, presa da una febbre di lavoro che non conosce tregua ed attaccata alle sue tradizioni di ospitalità principesca... Dal Castello dei Baroni Compagna al palazzo patrizio della Duchessa di Bovino, la cittadina dalle strade acciottolate e terse e dalle piazze luminose, con le case aggrappate alle pendici della collina scendente a picco sul letto del Coriglianeto, colle sue chiese, le cui cupole scintillano al sole, in una viva rifrangenza giallo-oro, sembra, nell'ora mattinale, destarsi da un sogno di dominio e che dalle sue terrazze si estenda, in atto di conquista, verso il piano, ove in mezzo al rigoglio delle messi e degli aranci, sorgono i primi centri di una attività industriale, che merita ogni incoraggiamento. Attraversiamo, in compagnia del podestà Fino, l'alpestre cittadina, ed un senso di vera ammirazione ci soggioga quando, in macchina, percorriamo la strada, bitumata ed incisa sullo strapiombo della collina per recarci al mercato settimanale, inaugurato da appena quindici giorni ed al macello, opera davvero degna del Regime, realizzata in brevissimo tempo e non ancora inaugurata. Il mercato è alla fine: qualche gruppo di montanari definisce i contratti, qualche altro prende la via dei campi; in vicinanza la modernissima fabbrica di liquerizia, dotata degli apparecchi più perfetti: è proprietà della Duchessa di Bovino nel cui palazzo di Corigliano sono stati ospiti i Principi di Piemonte. Diamo uno sguardo alla mole e tiriamo oltre. Il macello, che è a breve distanza, ci si presenta in tutta la sua vasta struttura. Senza dubbio è uno dei migliori di Calabria: locali ampi, aerati, dalle mura rivestite, fino a una certa altezza, da bianche mattonelle a smalto, mattatoi pulitissimi, locali per la pesa pubblica, vasche di depilazione, tripperia, locali d'isolamento, forni di incenerimento, conceria, stanza di pronto soccorso, alloggio per il veterinario, con annesso studio e gabinetto di ricerche: tutto con abbondanza di luce e di acqua, alla cui sopra elevazione s'è provveduto mercé apparecchi di grande perfezione. La breve visita riesce interessante, ma il dinamico Podestà c'invita ad altre sorprese. Si rifà la strada e la macchina rombante dopo 5 minuti di ripida salita, si ferma dinanzi all'ospedale. E' una costruzione solida, sorta sull'aria dell'antico convento dei Cappuccini, di cui rimane la cappella, dichiarata monumento nazionale, ove si ammira un Ecce Homo in terracotta d'inestimabile valore artistico e facente parte del tesoro nazionale nonché gl'intagli degli altari in legno, conservati, da più secoli, benché l'opera dei ladri abbia tentato deturparne le bellezze. L'ospedale è in via di completamento: dovrebbe inaugurarsi il 28 ottobre, ma data l'importanza dell'opera, di cui è completa la sola muraria (basti dire che la sala operatoria costerà 50.000 lire e che la stireria, lavanderia e cucina saranno animate dall'energia elettrica) si comprende che ogni determinazione di tempo è ancora prematura. La munifica beneficenza del barone Compagna ha contribuito con 300.000 lire e con una dotazione di 15.000 lire annue.

 (Articolo di Umile Cosenza, apparso sul “Popolo di Roma” del 18/6/1932)

 

I baci rubati      

 

 

Nel corso del 1912 a Corigliano si diffuse una variante meno cruenta della "fuitina": un semplice bacio "rubato" davanti a testimoni bastava a compromettere una giovane donna e obbligarla alle nozze riparatoci. Se i due giovani erano d'accordo, lo stratagemma serviva a ottenere il consenso di genitori che avevano in mente altri "partiti" giudicati più convenienti. Ma il bacio poteva anche essere strappato con la forza da un pretendente respinto, che solo in quel modo aveva qualche speranza di sposare la ragazza che amava. I genitori erano spesso costretti a cedere, ma poteva anche avvenire che... "Fra alcuni giovinastri del basso ceto - annotava il cronista del Popolano, nel settembre del 1912 - si è introdotta una riprovevolissima usanza, che meriterebbe di essere repressa, nell'interesse anche della pubblica moralità, e della pace delle famiglie. Quando alcuno di essi ha adocchiato una giovinetta alla cui mano non potrebbe altrimenti aspirare, spia il momento in cui la giovinetta resti sola in casa o stia sulla soglia della porta a respirare l'aria fresca della sera, si avventa su di essa e la bacia". "Da lui quel bacio viene ritenuto - continua il cronista - come una presa di possesso, e che nessun altro possa sposar la baciata. La debolezza di qualche padre che consentì di far sposare la figlia a colui che l'aveva baciata, fu causa del ripetersi di simili fatti. Incolse però male a tal Scarcella A. il quale, giorni or sono, si introdusse nella casa di Taverna Antonio e trovatavi la figlia sola, le si avventò e la baciò!..." La conclusione, quella volta non fu la solita. "Dopo tal fatto - conclude infatti l'articolo - lo Scarcella se ne era andato in una vigna di un suo parente; ma là lo raggiunse un colpo di fucile a palline che servirà, speriamo, a far comprendere a lui e a qualche altro il dovere di non attentare al pudore di giovanette oneste e alla pace delle famiglie".
 (Il Serratore n.92/2012 di E, Viteritti) 

 

Con le opere pubbliche, la storia si ripete      

 

 

Ponte Coriglianeto
Il 6-2-1817 iniziano i lavori per un nuovo ponte sul Coriglianeto. L'appaltatore è Vincenzo Bombini che si aggiudica i lavori per una somma pari a 2.000 ducati, da pagarsi in cinque rate, e l'ultima alla consegna dei lavori, che vengono consegnati all'inizio del 1819. Però qualcosa non va bene. Il Comune fa controllare i lavori dalla commissione per le opere pubbliche e viene fuori che il ponte è in molte parti malcostrutto, e, fraudolentemente,mancante delle dimensioni pattuite; pertanto potrà essere oggetto di imminente ruina. E così durante le stagioni delle pioggie il ponte subiva gravi danneggiamenti. Il progetto verrà ripreso molte volte e passò più di un secolo per la risoluzione del problema. Anche l'arginatura del Coriglianeto avviata nel 1905 fu completata solo nel 1920.

Un gruppo marmoreo dei Liguorini

Nel 1833 c'è un accordo tra il Sindaco di Corigliano, Gennaro M. Morgia, e il padre superiore dei Liguorini del Convento di S.Antonio per adornare una pubblica fontana in piazza S. Antonio con un gruppo marmoreo degli stessi Liguorini, per evitare un antiestetico rivolo d'acqua. Questo gruppo marmoreo, a causa di dispute tra il Comune di Corigliano e i Liguorini, verrà posto nella villa comunale dopo circa mezzo secolo, nel 1879.

 

La strada del Pendino o Pendìo
Il 10-2-1837 si approva un progetto, redatto dall'ing. Alessandro Villaci, dal Comune di Corigliano per allargare e sistemare la strada del Pendino, cioè dalla fabbrica di liquirizia(concio) dei Compagna, davanti la chiesa del Carmine, fino a piazza S.Antonio(allora Largo dei Saponari). Sono preventivati per completare tutti i lavori la somma di 1.768,86 ducati. L'opera viene ultimata solo sei anni dopo e per grazia del barone Luigi Compagna e Domenico Sollazzi che anticipano 1.300 ducati.

La via principale del paese

Il 16-5-1845, per una spesa complessiva di 3.060 ducati, l’ing. Giuseppe Durante redige il progetto per rendere carrozzabile la via principale del paese,da piazza S.Antonio(allora Largo dei Saponari) a piazza Vittorio Emanuele II, “a gghjiazza”(allora Piazza del Murorotto). L’appalto viene affidato alla ditta di Matteo Pirro. L’opera è più volte rinviata per mancanza di fondi. Solo il 20-8-1853, per un importo di 7.773,93 ducati, l’Amministrazione cittadina affida un nuovo incarico all’architetto F. Bartholini per redigere un nuovo progetto suppletorio che prevede un acquedotto sotterraneo per tutta la lunghezza della nuova strada. Ancora una volta i lavori non iniziano, in quanto da 7.773,93 il costo dell’opera passa a 10.018, perché il Bartholini prevede la demolizione di alcune case lungo il percorso della strada, per un costo aggiuntivo, come indennizzo dei proprietari, di 2.444,07. Ma le casse del Comune sono vuote e, come altre volte, l’esecuzione dei lavori viene  rimandata. Solo dopo due anni, nel 1857, finalmente Gennaro Banchieri, ing. Capo di Ponti e Strade con un altro nuovo progetto, il terzo, porta a termine nel 1859 i lavori travagliati di questa strada, ancora oggi la più importante del paese.

 

Fate bene fratelli, a voi stessi ...

di Rocco Benvenuto

Gli studi sulla presenza in Calabria degli Ospedalieri di San Giovanni di Dio, più noti in Italia come Fatebenefratelli - il nome deriva dal motto ripetuto dai fratelli durante le questue: "Fate bene fratelli, a voi stessi, dando per i poveri" -, se si eccettua qualche notizia riferita dalla storiografia locale, sono pressocché inesistenti. Senza alcuna pretesa di voler colmare tale lacuna, col presente scritto si intende offrire una prima ricostruzione delle origini e dello sviluppo del convento di Corigliano sulla base di alcuni documenti inediti rinvenuti nell'Archivio Segreto Vaticano. Sorta nel 1540 a Granada (Spagna) per iniziativa del portoghese S. Giovanni di Dio (1495-1550), la congregazione laicale dei Fatebenefratelli nel 1572 venne approvata da s. Pio V e nel 1586 fu elevata ad Ordine da Sisto V. Il Fondatore, prendendo alla lettera il vangelo: "In verità vi dico: ogni volta che avete fatto qualcosa al più piccolo dei miei fratelli, l'avete fatto a me" (Mt. 25,40), "Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni con gli altri" (Gv. 13,14), scelse come fine dell'Istituto l'assistenza corporale e spirituale degli infermi e dei bisognosi. Tale apostolato andava svolto precipuamente attraverso gli ospedali. I primi conventi-ospedali aperti in Italia furono quelli di Napoli (1572) e di Roma (1581; nel 1584 da Piazza di Pietra fu trasferito all'Isola Tiberina), mentre il primo ad essere fondato in Calabria fu quello di Rossano, che fu consegnato ai Fatebenefratelli il 30 maggio 1592 e venne dedicato a S. Maria della Sanità. Ad esso seguì quello di Cosenza, aperto il 30 marzo 1593 e intitolato alla Ss.ma Annunziata. Per quanto riguarda l'atto di nascita del nostro convento di Corigliano gli storici propendono per due date: per l'Amato il "piccolo fabbricato ad uso di ospedale, detto Dei Ben Fate o Fratelli,... fu edificato a cura e propria spesa dal nobile Francesco Persiani seniore, nel 1650", mentre per la storiografia degli Ospedalieri e per il Fiore il convento sarebbe stato eretto nel 1678.

 

L'anno di fondazione

 

Accantonando per il momento il 1678, dove è stato scambiato l'anno di riapertura con quello di fondazione, bisogna subito notare che la data proposta dall'Amato non può essere più accolta, dal momento che il convento risulta già aperto nell'apprezzo di Corigliano del 1606: "vi è ancora nella fine di detta terra hospedale di Ben fratelli per sostentamento di poveri infermi". Tale data trova poi una valida conferma, anche se un po' tardiva, nella relazione inviata a Roma per la visita "ad limina” - venne scritta il 19 ottobre 1630 - dall'Arcivescovo di Rossano, mons. Antonio Spinelli (1629-1645), dove vien detto che nel 1630 a Corigliano vi erano 5 parrocchie e 7 conventi: Conventuali, Riformati, Minimi, Carmelitani, Cappuccini, Domenicani, Cistercensi "et Hospitalis domus Fratrum B. loannis Nominis Dei". Se questi documenti ci attestano che il convento-ospedale di Corigliano funzionava già da alcuni decenni, di contro non ci offrono nessun elemento per fissare la sua apertura. Nella speranza che venga ritrovato l'istrumento originale di fondazione, al momento l'unico documento che menzioni l'anno di apertura è costituito dalla relazione che nel 1650 i Fatebenefrateili di Corigliano trasmisero al loro procuratore generale, p. Francesco Bombinis Gallego, a seguito dell'inchiesta ordinata da Innocenze X (1644-1655) per la soppressione di tutti i piccoli conventi di religiosi esistenti in Italia. Rinviando all'ormai classico studio del p. Boaga e alla successiva produzione storiografica sul provvedimento innocenziano, in questa sede basti dire che con la promulgazione della costituzione apostolica Inter caetera del 17 dicembre 1649 ogni convento italiano dovette stilare una relazione sul proprio stato patrimoniale e del personale. Questa relazione andava consegnata entro quattro mesi al rispettivo procuratore generale e da questi sottoposta ad una commissione di revisori che, sulla base delle disponibilità economiche e finanziarie, avrebbero stabilito il numero dei religiosi che potevano dimorare in quel convento. Tutto questo materiale tra i mesi di agosto e settembre del 1650 giunse alla Congregazione sopra lo Stato dei Regolari per una revisione generale e per i relativi provvedimenti. Il risultato di questo censimento fu che in Italia nel 1650 c'erano 6.238 conventi maschili con 60.623 religiosi. Poiché l'origine di questa soppressione era stata di natura canonica al fine di assicurare l'osservanza regolare si voleva che in ogni convento vi fosse un numero sufficiente di soggetti -, la Congregazione stabilì che quei conventi ove non poteva risiedere una comunità, vale a dire costituita da almeno sei religiosi (4 sacerdoti e 2 non chierici), dovevano essere chiusi. Adottando questo criterio, il 15 ottobre 1652 con la bolla Instaurandae regularis disciplinae si arrivò al provvedimento di soppressione col quale fu decretata la chiusura di ben 1.513 conventini. Per quanto riguarda i 7 conventi esistenti in Corigliano, l'unico ad essere soppresso fu proprio quello dei Fatebenefratelli. Ma procediamo con ordine e cerchiamo di stabilire quando i figli di s. Giovanni vennero a Corigliano.

 

La capienza dell'ospedale

 

Stando alla succitata relazione, "il detto convento fu fondato l'anno 1604 con il consenso dell’Eminentissimo Signor Cardinale Sanseverino, all’hora Arcivescovo di Rossano, con obligatione d'accettare li poveretti ammalati conforme l'obligo nostro"  Se questa data venisse confermata da altri documenti, significherebbe che la casa coriglianese sarebbe la terza aperta in Calabria. Ad essa avrebbero seguito Morano, istituita il 3 gennaio 1609 e dedicata a S. Maria de lohia; Catanzaro, inaugurata il 23 giugno 1628 e intitolata alla Santa Croce; e Oriolo, consegnata ai religiosi l'11 giugno 1647,e sotto il titolo di Santa Maria della Virtù : Sulla base di questi 6 conventi nel 1647 fu eretta la Provincia dei Fatebenefratelli di Calabria. Come è facilmente immaginabile, la relazione, essendo stata scritta il 15 marzo 1650, fa il quadro della situazione riferito a questa data. Tuttavia, grazie ad alcuni preziosi elementi, possiamo ricostruire le difficoltà incontrate dai religiosi nella conduzione dell'ospedale, come si esplicò la loro attività assistenziale e quanti furono gli ammalati ricoverati presso di loro. Un primo dato interessante sulla rete viaria di accesso a Corigliano è rappresentato dalla descrizione dell'ubicazione del convento-ospedale: "Si trova lontano dalla porta della Città sudetta circa canne 40,configurato alle case del Burgo, isolato da due strade maestre all'incontro del Convento de' Padri del Carmine". Circa la capienza dell'ospedale, sappiamo che inizialmente poteva accogliere 12/14 ammalati, mentre nel 1650 solo 7. Quali le cause di questa riduzione? La causa principale, more solito, è stata la mancanza di fondi. Per farci un'idea di questo problema, esaminiamo rapidamente qual era la situazione economica del convento all'epoca della soppressione, iniziando dalle entrate. Una prima fonte di proventi per il convento era costituita dall'investimento terriero, da cui i religiosi riuscivano a ricavare annualmente 48 scudi. I terreni in genere erano dei piccoli uliveti: i frati ne possedevano uno vicino al convento, un altro nella zona di Falcone, un altro ancora presso "lo Sponituro", un altro alla "Conicella" ed un altro infine alla "Spissa". Ad essi bisogna aggiungere 3 appezzamenti coltivati a grano, per un totale di 10 tomolate, con una rendita annua di 10 scudi. Riguardo all'amministrazione di questo patrimonio terriero - tra l'altro, era di loro proprietà un giardino con gelsi e alberi da frutta attiguo al convento -, i frati, non potendo svolgere una conduzione diretta dal momento che erano impegnati nell'assistenza agli ammalati, ricorrevano al sistema dell'affittanza, con contratti a breve e a lungo termine. Un altra risorsa per il convento proveniva dalla locazione di case e "poteghe". Nella parrocchia di S. Maria Maggiore avevano 10 locali che rendevano ogni anno scudi 18 e carlini 1, mentre in quella di S. Pietro 8 locali da cui percepivano scudi 10 e grana 10. Un terzo cespite di entrata era rappresentato dai censi che ammontavano a scudi 64 e 5 grana. Erano creditori dell'ospedale Cesare Mazziotta (10 scudi), Giovanni Domenico Di Marco (20 scudi), Giovanni Antonio Sabbatìno (11 scudi), Fabio Pirrone (2,5 scudi), Scipione Carriati(1 scudo), Luca Borrello (5 scudi), Francesco Riccardi (1 scudo), Giovanni Mario Cannato (1,2 scudi), eredi di Albinia China (1/2 scudo) Luna Ferrara (1 scudo), Zenobia Berardo (5 scudi), Nardo Cofone (1,5 scudo), Giovanni Domenico d'Arena(1/2 scudo) gli eredi di Francesco Bianco(2 scudi), di Scipione Onofrio(1,5) e di Pietro Antonio Barrese (1 carlino e grana 15). A queste fonti di provento, più o meno stabili, bisogna aggiungere le entrate "incerte", di entità certamente esigua, costituite totalmente dalle elemosine raccolte durante le questue - più che denaro, i Coriglianesi erano soliti donare olio, grano e cascio" -, pari a 30 scudi, e dalle piccole offerte fatte dai fedeli che frequentavano la chiesa, che arrivavano a 6 scudi. Sommando tutte queste voci abbiamo come introito scudi 176 e 3,5 carlini. Passiamo ora a considerare le uscite che rappresentano l'aspetto più interessante della situazione economica dei frati. Nel 1650 la comunità era formata da tre religiosi: da fra Giuseppe Burzano di Milano, che era il superiore, da fra Biase Caputo di Napoli e da fra Silvestro Fanili di Napoli. Inoltre in convento risiedeva anche un laico, Carlo Grossi, nativo di Rossano che fungeva da inserviente. Essendo tutti laici e avendo un legato da soddisfare, i frati ricorsero ad un cappellano per la celebrazione delle messe e per la rettoria della chiesa. Questi si recava da loro 3 volte alla settimana e alla fine dell'anno riceveva dalla comunità 18 scudi: l'offerta per ogni messa era di 1 carlino.

 

Le spese dei frati

 

Le maggiori voci di uscita erano ovviamente rappresentate dalla gestione della struttura ospedaliera. Annualmente il vitto veniva a costare 82 scudi: 30 per il pane, 36 per la minestra e la pietanza, 10 per il vino e 6 per le spezie. Al medico andavano 9 scudi, mentre per le medicine si spendevano 12 scudi. Aggiungendo a tutto ciò la paga per il barbiere (2,5 scudi) e la lavandaia (2,5), le candele (2 scudi), la legna (5 scudi) e la biancheria (9 scudi), ogni anno si arrivava a 118 scudi. Per quanto riguarda la vita conventuale, i frati spendevano per proprie esigenze 30 ducati annui (10 procapite). I festeggiamenti dell'8 marzo in onore del santo Fondatore comportavano una spesa di 2 scudi. Inoltre, al pari di tutti gli altri conventi, avevano degli obblighi di carattere finanziario verso la curia generalizia e provincializia: per i viaggi dei diffinitori ai capitoli generali pagavano 5 scudi, mentre per la visita canonica del provinciale 6 scudi. C'era infine da pagare 1 scudo per censi enfiteutìci. Il totale delle uscite era di 177 scudi e 2 carlini. Facendo il bilancio, emerge subito che la comunità aveva un deficit di 10 scudi, un passivo piuttosto lieve e tale da non giustificare la drastica riduzione dei posti letto. In realtà la situazione era molto più grave di quanto possa apparire dal raffronto fra le entrate e le uscite. Al di là dell'estinzione del legato di mons. Lucio Sanseverino (1592-1612) per la celebrazione di 5 messe annue - per tale ragione le messe furono ridotte a 3 da mons. Spinelli -, ciò che rendeva particolarmente difficile l'amministrazione conventuale erano gli 810 scudi di censi inesigibili. Questa ingente cifra si era venuta creando con la rinuncia da parte dei figli di alcuni affittuari all'eredità del fondo, dimodoché ai frati non veniva più versato il canone. Questo è il caso di Diego Migro, figlio del fu Francesco, che nel 1647 rinunciò al terreno che i frati avevano concesso al padre per 7 scudi annui, provocando così una perdita di 28 scudi per la comunità. Dagli eredi del fu Marcello di Prato avrebbero dovuto ricevere ben 343 scudi, mentre da Marcello Grisafi, figlio del fu Orazio, 130 scudi. Ad accrescere l'entrate inesigibili si erano poi sopraggiunte le insolvenze da parte delle Confraternite di S. Maria delle Grazie e di s. Bernardino - apparteneva alla chiesa di s. Giovanni -, che erano rispettivamente debitrici di 105 e 188 scudi. Infine, c'era un piccolo debito di 15 scudi da parte degli eredi di Giacomo Greco, che avevano fatto sistemare la salma del loro genitore nella cappella del SS.mo Sacramento e da tre anni non pagavano.

 

La soppressione e la riapertura

 

Sin qui la relazione. Ignoriamo quando giunse a Roma, mentre sappiamo quando fu presentata in Congregazione: il 15 settembre 1650. Al testo inviato dai frati di Corigliano era allegata la decisione della commissione dei revisori, costituita dai PP. Gallego, Tarcisio Ferrari, Silvestro Puri, Scipione Sauli, Santi Caviamani, che laconicamente esordiva: "Questa casa non può mantenere più di Padri; per osservare l'ordine di Nostro Signore non se gl'è fatta asignazione alcuna". L'ordine del papa cui si riferivano i revisori era che "ove non stanno più che tre o quattro frati, non faranno particolare assegnazione, ma lasceranno luogo vacante", in quanto non vi poteva risiedere una comunità formata canonicamente. Esaminate le indicazioni della commissione, il 15 ottobre 1582 la Congregazione decretò la soppressione del convento di Corigliano. La stessa sorte toccò ai conventi di Cosenza, Morano e Oriolo, il che portò alla successiva soppressione della provincia dei Fatebenefratelli di Calabria. Con la chiusura del convento dei Fatebenefratelli la popolazione di Corigliano rimase priva di assistenza. Non sappiamo se da parte dei Coriglianesi furono inoltrate suppliche per la sua riapertura. Di sicuro c'è che tutti i beni dei frati, così come prevedeva il decreto di soppressione, passarono al vescovo, mons. Giacomo Carafa (1646-1664), che li utilizzò per il seminario diocesano.

 

Ogni anno 150 pazienti

 

I Fatebenefratelli, dal canto loro, dinanzi alla chiusura di 20 case in tutta la penisola, si mossero presso la Congregazione per la riapertura di almeno 12. La loro richiesta si fondava sul decreto di Urbano VIII Cum sicut del 9 luglio 1638, confermato da Alessandro VII col breve Provisionis nostrae del 9 novembre 1658, che permetteva loro di avere comunità non formate canonicamente, le quali restavano sotto la giurisdizione dell'Ordinario sino a quando le rendite non fossero state sufficienti al mantenimento di 12 religiosi. La richiesta fu accolta e nel 1678 i Fatebenefratelli riaprirono il convento di Corigliano, che venne annesso alla provincia religiosa di Bari. Ignoriamo la composizione della nuova comunità. Sappiamo invece che nel 1684 la comunità era composta di 6 membri e così rimase costantemente fino al 1716. Durante questo periodo, i pazienti ricoverati presso l'ospedale dei Fatebenefratelli furono in media 150 all'anno, il che non è poca cosa se si pensa che i posti disponibili era solo 8 e la situazione economica non era ancora sanata. Il neo vescovo di Rossano, Mons.Girolamo Compagnoni (1685-1687), nella relazione per la visita "ad limina" del 15 dicembre 1685, a proposito del convento coriglianese dei Fatebenefratelli, si esprimeva in questi termini: "P(atres) viventium sub regula B. loannis Dei et propter P(atres) deficientiam, cum non sit numerus prefixus per bullas novissimas fel(icis) record(ationis) Innocentii decimi et Alexandri septimi pontificum, ordinarie iurisditt(ione) subiacet". Più esplicito fu mons. Andrea Adeodati (1697-1713) nella relazione del 1712: "Nec non hospitales et domus Fratruum s. loannis Dei, alias vigore const(itutionis) Innocentìi Papae X fel(icis) record(ationis) suppressa et postea reitegrata annis elapsis virtute rescriptum S. C(ongregationis) Episcoporum et Regularium, qui fratres non adimplenti conditiones in dicto rescripto appositas et quod prius non degerunt uti religiosi et quo corritumtur eo peiore èvadunt". Il convento-ospedale dei Fatebenefratelli rimase aperto sino al 7 agosto 1809, quando per effetto della soppressione napoleonica venne definitivamente chiuso e l'unico frate che teneva in piedi la struttura lasciò Corigliano. Successivamente il complesso monastico venne acquistato dai baroni Compagna, che lo trasformarono in stabilimento oleario. Oggi l'edificio è utilizzato dai fratelli Caiani come falegnameria. 

Ettore Romanelli  (da San Quirino-PN) - Lettera al Serratore nel 1997

 

…Piazza del Popolo, la cui descrizione è suggestiva, specie per me che ci sono nato nel "grosso palazzo pretenzioso" (evidenziato nel bel disegno di Vittorio Capacchione) suscita ricordi indimenticabili ; un punto di osservazione privilegiato - la mia casa - della vita intensa e operosa che vi si svolgeva, dal mercato di frutta e verdura a quello impressionante del pesce, a quello spicciolo la domenica con gli "acritani" che venivano a scambiare le loro cose, e i parrucchieri aperti per la clientela forestiera. Non so se c'è ancora qualcuno che ricorda il mutilato Bandini che vendeva lupini sotto il lampione, e la sua voce risonava fino a tarda sera e con qualsiasi tempo, fin che le cantine erano aperte. E che dire dei "vitelloni" di allora, "impiegati al pubblico calpestio" (come diceva mio padre) fino alle ore piccole! E il Cinema Italia, iniziativa - una delle tante, fra le quali la banda cittadina - del vulcanico Don Ciccio Drugosei. Ginnasio Garopoli che per cinque anni ho frequentato, dal 1931 al 1936; ginnasio del quale è stato una colonna il preside prof. Fortunato Bruno, inspiegabilmente non ricordalo, insigne docente di italiano, latino e greco. Villa Margherita, quando ancora non era stata deturpata dall'orrendo Ufficio Postale, con la "fisckia" e il distributore della Shell. Piazza Guido Compagna; non so quanti ricordano che davanti all'Ufficio Postale sostava la carrozza postale che faceva servizio con la stazione, trainata da due cavallini pomellati. Viale delle Rimembranze con i due estremi del Calvario e la piazza col monumento ai Caduti: da bambino andavo a villeggiare con la mia famiglia al Calvario. Allora il Viale era alberato, e ogni albero era recintato e portava una targhetta smaltata col nome di un Caduto. Una terrazza bellissima sul mare, allora non deturpata dalle brutture dell'Ariella e dalle varie costruzioni. E ancora, di fronte a casa nostra c'era il fontanino del vecchio acquedotto. Potrei dilungarmi ancora per molto, ricordando i mille episodi e personaggi, amici e compagni di tanti anni fa e che facevano parte della vita di Corigliano, unitamente ai tanti artigiani che animavano il cosiddetto centro storico. Ma non voglio tediarla oltre, e La prego di volermi scusare se ho approfittato di questa occasione per dire, forse più a me stesso che a Lei, quello che non posso dire ad altri che sono estranei a tutto quanto ha raccontato nel libro……

Altre notizie sul Cimitero

Fonte :

Il ducato di Corigliano di Antonello Savaglio - Corigliano di una volta di E. Viteritti - Il Serratore di E. Viteritti - Storia di Corigliano Calabro di E. Cumino - Rocco Benvenuto

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