I Giochi

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Giochi

Alla ricerca dei giochi perduti

di Carmine De Luca

 

Il gioco del barattolo e del carburo era tra i giochi proibiti del dopo guerra. Con carburo e barattolo ho avuto a che fare tra la fine degli anni quaranta e i primi anni cinquanta. Quel gioco era pericoloso. Lo sapevamo. E i grandi facevano di tutto per vietarcelo. A un ragazzo saltò per errore una parte della mano. Era stato incauto nel momento dell'accensione. L'accensione era il momento più delicato; per riuscire bisognava tenere presente e imitare i movimenti dei fuochisti quando avvicinano la fiamma alla miccia dei fuochi d'artificio. Barattoli se ne trovavano quanti se ne voleva. Carburo no. Bisognava procurarselo il più delle volte rubacchiandolo. Mille pretesti per entrare in tre-quattro nel negozio dove il carburo stava in un grosso bidone; altri pretesti per distogliere l'attenzione del bottegaio; furtivamente si riusciva a trafugarne qualche pezzetto. Era grigio, a sassi più o meno grossi che si sfaldavano facilmente. Lo usavano per la saldatura autogena e per le lampade ad acetilene. Anche per quelle lampade che, in primavera, a Pasqua, accompagnavano la sera del venerdì santo la processione del Gesù morto, una processione ciondolante per vicoli e strade. Dunque, il gioco. Si fa una buca a terra, vi si versa un po' d'acqua, poi il carburo; il barattolo, al quale si è praticato un forellino sul fondo, rovesciato, lo si incassa nel terreno a chiudere la buca, dove intanto il carburo a contatto con l'acqua sublima e libera acetilene. Si produce nel barattolo una specie di camera di scoppio per l'addensarsi del gas prodotto dalla reazione chimica. Uno di noi avvicinava la fiamma di una torcia, fatta di un foglio di giornale arrotolato, al foro del barattolo. Uno scoppio, e il barattolo diventava un proiettile. Si faceva a gara a chi riusciva a spedirlo più in alto. Il gioco comportava alcune abilità. Prima, l'abilità di individuare il terreno giusto per la buca. Un terreno non troppo permeabile: doveva l'acqua per un tempo sufficiente alla reazione chimica. Ma prima ancora l'abilità di riuscire a procurarsi il carburo: ai bambini non si vendeva, si sapeva dell'uso pericoloso che ne avrebbero fatto. Terza abilità: la buca di dimensioni giuste, né troppo ampia né troppo piccola. Meglio profonda e stretta. Quarta abilità: le dimensioni del barattolo. Soccorrevano i residui della cucina. A quei tempi i migliori barattoli erano quelli della "conserva" di pomodoro, stretti e lunghi, credo da due etti e mezzo. Delle stesse dimensioni più o meno degli attuali barattolini per succhi di frutta. Qualcuno di noi aveva scioccamente immaginato che a barattolo grande corrispondesse scoppio più forte e più lunga gittata del proiettile. Ci si provò con un barattolone di pomodoro, di quelli addirittura da cinque chili. Un fallimento. Ne sortì un rumore sordo e slabbrato e un salto storto e basso. Quinta e più difficile abilità era quella di riuscire ad avere la giusta cautela e attenzione al momento dell'accensione. Chinati, ginocchia a terra, a distanza tale da proteggersi dagli scoppi falliti (quelli che spruzzavano tutt'intorno acqua, carburo e fango).Il fascino del gioco era dato anche dalla sua pericolosità. Lo sanno benissimo i bambini. Un altro gioco. Quello che chiamavamo della "staccia". Qui cade a propositoun riferimento storico-linguistico. Il "Glossario latino italiano" di Piero Sella, nel volume dedicato a Stato della Chiesa, Veneto e Abruzzi, enumera sotto la voce "ludus" il nome di numerosissimi giochi ricavati dagli statuti di varie città. "Ad staczellas" cioè "gioco delle piastrelle" è ricavato dallo statuto di Teramo del 1440. La parentela morfologica tra staczella e staccia è evidente. Fine della citazione. Per noi la staccia era un pezzo di mattone più o meno ben levigato per meglio afferrarlo e lanciarlo. Io trovavo straordinariamente adatta al gioco la staccia di mattone di argilla, sulle due facce ugualmente ruvida. Altri preferivano un pezzo di piastrella che per me aveva l'inconveniente di presentare una faccia ruvida e l'altra liscia. Al momento del lancio una parte ti scivolava dalla mano, l'altra esercitava maggiore resistenza. Ma era questione di gusti, anche. Queste le regole del gioco. Ciascun giocatore dispone di una staccia da lancio; un altro pezzo di mattone fa da birillo. Lo si pone in verticale, ad una certa distanza, diciamo dieci metri circa. A turno si lancia. Bisogna colpire e far cadere il birillo. L'analogia con le bocce è evidente. La staccia era le bocce dei bambini, trenta-quarant'anni fa (forse ancora oggi qualche ragazzino lo gioca) e nel medioevo. Noi lo si integrava con la posta delle figurine o di monete fuori corso. Sulla staccia-birillo si collocavano delle figurine(quelle di Tarzan-Weissmuller; quelle dei giocatori del Torino: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti...; quelle degli attori hollywoodiani: sopra tutti il fascino erotico di Jane Russell). Si vincevano quelle che, colpito e abbattuto il birillo, si trovavano più vicine alla propria staccia. Uno degli effetti dei continui colpi era quello di ridurre a brandelli le ormai irriconoscibili figurine. Quale fosse il limite della loro perdita di valore d'uso e di scambio era sempre oggetto di accese discussioni. Se erano monete al posto di figurine, si montava sul birillo un mucchietto di soldini che facilmente si trovavano in casa, conservati dai tempi della riforma monetaria con il passaggio dalla monarchia alla Repubblica. In bilico stavano una sopra l'altra monetine diverse, di diverso valore - cinque o dieci o venticentesimi - ma tutte con il profilo e la pelata di Vittorio Emanuele III, re sciaboletta, com'era detto, e dall'altra parte l'immagine di un'aquila (un'aquila imperiale?)del tutto inadeguata all'Italia stracciona o l'immagine di una spiga un tantino più plausibile a dare idea della fame. Ma per noi ragazzini quelle monetine avevano comunque un che di prezioso. Simulavano una prosperità che era solo nei sogni. Anche questo era un gioco. 

'U cantarj

 

Sutt’u liett' i Zamarìa

 

  C’è nu cantarj chijni chijni

 

Chi parla u cchiù primi

 

Si ni suca nu cucchiarini

 

 

Sugni figghji 'a Bbogghija Bbogghja

 

Puozzi fare chilli chi vuogghji

 

Pir'a mura ia cumpagnìa

 

Steji citti puri gghija

I ragazzi si disponevano in circolo attorno a colui che conduceva il gioco e che recitava la poesiola. Il gioco diventava divertente nel momento in cui alcuni ragazzi facevano gesti buffi, e a causa di questi gesti qualche ragazzo rompeva il silenzio, con la pronuncia anche di una sola vocale... Ed ecco pronto, per quest'ultimo mal capitato ragazzo, il famoso cucchiaino di...che consisteva , in pratica, a pagare il cosiddetto "pegno", cioè a subire una pena, stabilita dal ragazzo che l'aveva fatto parlare. (Il gioco era bello perché esaltava il più simpatico della "compagnia", cioè quello che, gesticolando, faceva parlare gli altri ragazzi)

Girotondo bimbi

Rota e rrutella,

 

su' bbinuti i monachella.

 

echi ssu' bbinuta a ffàra?

 

Su' bbinuti a spassijàra,

 

e ru monicha 'i sanda Catrina,

 

e cchjchita, chjchita u pullacina.

Questo gioco, (molto famoso anche oggi presso le scuole dell'infanzia) era il gioco dei bambini che si prendevano per mano e si disponevano in circolo. Incominciavano, poi, a recitare la filastrocca facendo il girotondo. Alla fine, tutti i bambini si piegavano(si chjicavano) sulle ginocchia. (Le scuole dell'infanzia sono sempre esistite...si chiamavano "u vicinanzi", "a mastra",...)

Pati, patella...hjè

Pata, patella... hjé

 

cifarella... hjé

 

avija ra cura...hjé

 

'un ss'ha ffiràta... hjé

 

'i zumbàra 'nu fuossa...hjé

 

e r'è gghjuta...hjé

 

u pittirilla... hjé

 

e r'ha zzumbàta...hjé

 

cums 'nu grilla...hjé

 

Pata, patella...hjé

..............................

 

Facendo al tocco(o recitando "a r'alija mastr'andrija ...") due ragazzi stabilivano i ruoli. Il vincitore del tocco, recitando la filastrocca, colpiva le spalle del suo avversario, con le mani aperte, due volte, cioè al "pati e patella", allo "hjè", invece, tutt'e due i ragazzi formavano contemporaneamente con le dita delle mani dei numeri. Se i numeri formati da entrambe le coppie di mani erano gli stessi il gioco si interrompeva e i due ragazzi si scambiavano i ruoli; se, invece, erano uguali solo i numeri di due mani, il picchiatore continuava a recitare la filastrocca colpendo però solo con una mano; se, infine, i numeri erano diversi, il gioco proseguiva con i ruoli iniziali.

'U carruòcciulƏ

Fino ad una trentina d'anni fa, nel mese di settembre, non c'era ragazzo a Corigliano che non circolasse con il suo carruòcciulƏ in mano. Oggi i ragazzi che praticano questo giuoco sono pochi e, malgrado ciò, la terminologia ad esso connessa è rimasta quasi immutata. Anche se stentatamente, questo giuoco sopravvive ancora. Prima dell'industrializzazione, i carruòcciulƏ erano fatti con il tornio a pedale dai mastri carrai e da qualche ebanista. Erano rustici e non colorati come quelli delle industrie. La trottola, costruita con legni teneri, ha grosso modo, la forma di un cono rovesciato con delle scanalature orizzontali sulla superficie laterale, lungo le quali si avvolge strettamente 'u lazzƏ; nel vertice vi è conficcata una punta di ferro, 'a mazzolƏ, nella parte opposta vi è una capocchia, 'a curicinƏ. La rotazione si ottiene lanciando con forza la trottola a terra e contemporaneamente tirando a sé di colpo lo spago. Il lancio può essere fatto a bbattamurƏ, a scilapiattƏ e a tiralazzƏ. Nel primo tipo di lancio, il braccio viene sollevato in alto e poi arretrato (sin dietro la nuca come per lanciare 'nu bbattamurƏ,un petardo). La rotazione così ottenuta risulta veloce e ru carruòcciulƏ 'ndalla e rrumma. Di preferenza questo lancio si effettua quando i ragazzi giuocano a spacca -carruòcciulƏ. Nel secondo tipo, i1 busto del giocatore deve essere piegato leggermente in avanti ed il braccio avvicinato a terra. Poi si svolge con rapidità lo spago portando il braccio all'indietro. Questo lancio, proprio dei principianti, si rende necessario nei giochi di abilità. Nel terzo tipo il braccio, semi piegato e tenuto quasi all'altezza della spalla, deve essere portato con rapidità all'indietro facendo nel contempo svolgere il laccio della trottola tenuta in mano. Questo lancio praticato dai meno esperti, è poco efficace nel giuoco dello spaccacarruòcciulƏ, perché il tiro non risulta troppo forte. Il giuoco 'i ru spaccacarruòcciulƏ è fatto, quasi sempre, da un gruppo di ragazzi. Uno di essi, designato dal tocco, mette a terra la sua trottola e gli altri, a turno, devono colpirla con la loro trottola e possibilmente spaccarla. Se la trottola non viene colpita direttamente col primo lancio, di primo acchito, il giocatore ha due possibilità: prendere sulla mano la sua trottola e lasciarla cadere con la punta sulla trottola parata, (il segno lasciato dalla punta si chiama pizzicognƏ), oppure avvicinare con lo spago la sua trottola a quella messa a terra fino a farle zinnarƏ, toccare. In ognuno di questi casi la battuta è valida ed il medesimo giuocatore continua a lanciare; se, invece, non riesce in nessun modo a toccare la trottola avversaria, deve mettere a terra la sua trottola scambiando in tal modo i ruoli. Può capitare che 'u carruòcciulƏ comprato risulti zampalijunƏ (saltatore) oppure scrivacicirƏ, (si muove rapidamente a spirale), e quindi inadatto a qualunque tipo di giuoco. Per eliminare il primo difetto, almeno così vuole la tradizione, bisogna togliere 'a mazzola, mettere nel buco un pò di mmerdƏ 'i ciuccƏ ed infilare nuovamente la punta di ferro. Non sempre, però, questa operazione da buoni risultati. La tradizione dice anche che per rendere 'u carruòcciulƏ più leggero, 'na pinnƏ, basta infilare nel buco da cui si è tolta la punta una o due piume di gallina. Logicamente, anche in questo caso il risultato è molto incerto. Meno tozza, più piccola e slanciata è 'a carruccellƏ che se lanciata con forza ed abilità e non è zampalijunƏ, prima rummƏ e poi 'mbetrƏ.Per finire ricordo che nel giuoco 'i ru spaccacarruòcciulƏ è consentito, se stabilito nei patti, mettere a terra una trottola vecchia; ricordo pure che alcuni ragazzi, una volta si facevano da soli 'u lazzƏ intrecciando con un chiodo lungo e sottile del filo di cotone attorno ad alcuni chiodini (quasi sempre quattro)piantati per metà su una base di un rocchetto di filo.

(Tonino Russo)

Gerardo Bonifiglio Aggiungo un particolare che forse non tutti ricordano. "U lazzi" ritenuto migliore era un particolare laccio chiamato "rumaniell" che usavano i muratori per il filo a piombo ed altre esecuzioni. Era un laccio intrecciato e resistentissimo.

A mazza e ru trugghji

Sta ppi r'una...

 

Sta ppi dduva...

 

Gangila o vàja,

 

oneja,

 

doveja,

 

e ttreja.

 

 

Quandi nni vu?

 

 

Ruva salata e ccinchi sana.

 

 

'Un cci suna... cannijàma.

 

 

T'i ddugni... vienitinna.

 

 

I ruva salata mi mmindi 'ndra saccuccia

 

 

e ri cincha sana mi ttiegni mmani.

 

 

Skascja ti fazza.

 

 

Fora Skascja: gotti salata e ccinchi sana.

 

mazza è un pezzo di legno cilindrico di circa 50 cm, 'u trugghji un piccolo pezzo cilindrico di circa 15 centimetri appuntito alle due estremità. All'inizio si stabilivano le regole del gioco. Se era consentito sbagliare la battuta una sola volta, allora , si diceva sta ppi r'una, due volte, sta ppi dduva,... Il ragazzo che si era guadagnato la battuta con il tocco (oppure con una filastrocca) iniziava il gioco : poneva a terra il truglio, lo picchiava sulla punta in modo da farlo saltare e così a volo, colpirlo con la mazza(la famosa "cucculata"). Se ciò avveniva, la battuta era valida, al contrario(se si era stabilito senza sta ppi r'una) perdeva la battuta e doveva cedere la mazza all'avversario. Poneva poi la mazza a terra proprio nel punto dove era stata fatta la battuta, mentre l'avversario andava a raccogliere il truglio e lo lanciava sulla mazza messa a terra; se questa veniva colpita, i ruoli si scambiavano, altrimenti il battitore poteva colpire il truglio quattro volte (Gangih o viijs, oneja doveja e ttreja) facendolo sempre saltare a terra prima della battuta a volo,(e non strascinato).Fatte le quattro battute, misurava ad occhio la distanza tra il punto di battuta e la meta raggiunta dal truglio e prima di procedere alla misurazione il battitore proponeva un concordato bonario sulle sane o i salati spettategli(10 mazzate erano una sana e 10 sane erano una salata). Se l'avversario non accettava tale proposta, si procedeva alla misurazione; in tal caso l'avversario diceva il termine: cannijams. Se viceversa egli accettava la proposta si rivolgeva al battitore dicendo: vienitinna (cioè, vieni a ribattere che son d'accordo sull'entità della tua richiesta). Se la misurazione risultava inferiore alla richiesta del battitore, questi perdeva la posta in gioco conservando però il diritto alla nuova battuta. Nel caso in cui la misurazione corrispondeva esattamente o risultava inferiore alla richiesta del battitore, questi non perdeva la posta ma non l'aveva ancora guadagnata perché, anche nel caso che sto esaminando, l'avversario poteva fargli perdere la posta giocando sul senso di alcune frasi d'obbligo che i due giocatori dovevano scambiarsi a fine di ogni misurazione. Cominciava a parlare l'avversario apostrofando il battitore con le parole "skascia ti fazza" (dimmi con esattezza la posta finora guadagnata). Il battitore era tenuto a rispondere subito indicando la posta ed accompagnando tale indicazione con le parole "fora skascia" (ossia, al sicuro dei tuoi tentativi di farmi perdere la posta da me guadagnata, sto per dirti con esattezza la posta). Se il battitore dimenticava di dire il "fora skascia" e sbagliava nell'indicazione della posta, perdeva tutta la posta guadagnata dall'inizio del gioco sino a quel momento. Se invece diceva fuori scasso e sbagliava nell'indicazione della posta, perdeva solamente le sane o i salati guadagnati in quella battuta.

'U mazzùnƏ

I ragazzi, prima di iniziare il giuoco, sceglievano tra i loro fazzoletti, muccaturƏ, quello più grande per preparare 'u mazzùnƏ. Il fazzoletto scelto, piegato in quattro, veniva fatto reggere da un ragazzo nel seguente modo: tra i denti incisivi il vertice «chiuso» (quello, cioè, corrispondente a fazzoletto aperto al centro) e tra il pollice e l'indice delle mani gli altri due vertici consecutivi e tra loro opposti. Il restante vertice, costituito dai quattro lembi del fazzoletto, rimaneva libero. Un altro ragazzo arrotolava strettamente tre di questi lembi fino al vertice opposto (tenuto tra gli incisivi). In questo punto, stringeva tra il pollice e l'indice della mano destra questa specie di cordone formatosi ed invitava il compagno a lasciare la presa facendo fare al cordone un'ultima rotazione di 180 gradi. Afferrava poi con la mano sinistra il quarto lembo del fazzoletto (quello rimasto libero) e lo tirava facendo contemporaneamente mollare la presa dei due spigoli retti dal compagno con le mani. Fatto tutto ciò, 'u mazzùnƏ, una specie di piccola clava di stoffa, era pronto. Alcune volte i ragazzi legavano la parte grossa, 'a capƏ, con un pezzo di spago per renderla più dura e non era raro il caso che vi mettessero all'interno una piccola pietra prima di legarla. Il giuoco iniziava facendo al tocco per stabilire quale dei ragazzi doveva tenere 'u mazzùnƏ. II ragazzo designato dalla conta, si attorcigliava al dito indice della mano destra il lembo del fazzoletto, 'a cura, mentre con la sinistra formava un numero (il pugno chiuso equivaleva a zero). Se l'altro ragazzo formava lo stesso numero, vinceva e si prendeva 'u mazzùnƏ; se formava un numero diverso, perdeva e riceveva 'na mazzunatƏ sul palmo della mano. Ripeteva la stessa cosa con un secondo ragazzo, poi con un terzo e via via con tutti quelli partecipanti al giuoco. La versione più antica di questo giuoco prevedeva l'uso 'i ru jùricƏ, del giudice, che rendeva il giuoco stesso meno banale e più interessante dal punto di vista tecnico.'U jùricƏ è un osso delle articolazioni degli animali minuta (capretto, agnello). Ha quattro facce: due larghe (una incavata e l'altra opposta a gobba) e due strette (una a forma di S coricata e l'altra opposta a forma di 8 pure coricato). E' stato difficile stabilire il nome delle facce e ancor più difficile le loro singole funzioni. Comunque, la paziente ricerca ha dato alla fine risultati soddisfacenti e, quel che più conta, esatti. Per ciò che riguarda i nomi abbiamo:

1) puorkƏ, la prima faccia larga a gobba;

2) nendƏ, la faccia opposta incavata;

3) jùricƏ, la faccia stretta a forma di S;

4) mazzƏ, la faccia opposta a forma di 8.

Ed ora passiamo alla tecnica, la cui fase preliminare serviva a stabilire i ruoli. Ogni ragazzo lanciava 'u jùricƏ (l'ordine di successione dei lanci si stabiliva facendo al tocco): se usciva la faccia 3, quel ragazzo faceva il giudice, colui che condannava o assolveva; se usciva la faccia 4 vinceva il mazzone; se usciva la faccia 2, poteva lanciare nuovamente se ancora non erano stati assegnati 'u jùricƏ e ra mazzƏ In questa prima fase era irrilevante l'uscita della faccia 1. Stabiliti i ruoli primari di jùricƏ e mazzƏ, gli altri ragazzi partecipanti al giuoco lanciavano, uno per volta, il «giudice»: se usciva il 4, il ragazzo si prendeva 'a mazzƏ; se usciva il 2, non poteva essere condannato; se, infine, usciva l'1, cioè puorkƏ, il ragazzo doveva essere condannato dal giudice ad un certo numero 'i mazzulatƏ-3. Lo stesso giudice stabiliva se le «mazzate» (da dare sempre sul palmo della mano) dovevano essere impercettibili, 'n'allisciatƏ, leggere, leggƏ leggƏ, un pochino più forti, 'na papàgnƏ, oppure forti, ccu ppipƏ e ssàlƏ.

(Tonino Russo)

Uno si monta la luna

UNO SI MONTA La luna . Questo gioco era molto diffuso e si praticava facilmente. Il primo giocatore si chinava incurvando la schiena e aspettava che a turno gli altri  ragazzi lo saltassero e quindi si disponevano per essere saltati pronunciando un comando  Se durante il salto si casca per terra o si salta male o non si salta proprio il giocatore va sotto. Chi dimentica di pronunciare il comando va sotto . Le frasi iniziali (I comandi) da pronunciare e le azioni da eseguire durante i salti erano le seguenti:

 

1 UNO si Monta la luna,salto semplice

DUE Buoi,salto semplice

TRE La figlia del re, bisogna fermarsi dove si atterra, un leggero spostamento si vada sotto

QUATTRO Batti le mani, salto semplice e in volo battere le mani

CINQUE Pugni Forti, saltando si colpisce la schiena a pugni chiusi

SEI Piedi Incrociati, si deve atterrare con i piedi incrociati

7 SETTE Colpo di piede, si deve colpire con il tacco chi sta sotto

 

U battӓmurƏ

Anche questo giuoco era individuale e non fatto a compagni. La posta veniva fissata prima dell'inizio del giuoco ed essa era sempre rappresentata 'i sordƏ 'i jierrƏ, monete metalliche; prima dell'inizio del giuoco veniva anche concordata la misura, la cui lunghezza variava dai 10 ai 15 centimetri, fatta con una sottile asticella di legno. Una misura più lunga facilitava il giuoco e lo rendeva meno avvincente. Facendo al tocco o recitando:

“ A r’alijƏ mastr’AndrijƏ!

A ra dobba pijilƏ ccà “

i ragazzi stabilivano l'ordine di successione delle battute. Il primo giocatore faceva rimbalzare contro un muro una moneta facendola allontanare il più possibile dal muro stesso. Il secondo giocatore lanciando la sua moneta contro il muro dosava la forza d'urto per far sì che la stessa moneta si avvicinasse il più possibile a quella del primo battitore. Se vi riusciva, si prendeva la moneta ed il giuoco proseguiva con il terzo giocatore; se non vi riusciva, perché la battuta era corta o lunga, anche la sua moneta rimaneva a terra ed il terzo ragazzo era avvantaggiato perché poteva scegliersi la battuta ed indirizzarla sulla moneta più vicina al muro. Se con due tiri ben calibrati riusciva a prendersi le due monete, il quarto giocatore lanciava «a vuoto» (senza, cioè, avere la possibilità di vincere alcuna moneta), se non vi riusciva, il quarto giocatore poteva indirizzare il suo tiro su una delle tre monete rimaste a terra. Se il ragazzo era particolarmente bravo e riusciva a prendersi le tre monete, lanciava «a vuoto» il quinto giocatore. Se i giocatori erano soltanto quattro, il giuoco ritornava al primo il quale raccoglieva da terra la moneta e lanciava; se la sua moneta era stata vinta da un compagno - avversario, la battuta rimaneva sua però doveva farla con un'altra moneta presa dalla tasca. Il giucco era a rotazione continua e quasi sempre terminava quando uno o più ragazzi fullivinƏ, cioè, rimanevano senza soldi.

(Tonino Russo)

'A staccia

 

Questo giuoco si svolgeva di preferenza sulla terra battuta; i giocatori erano in numero variabile ed ognuno di essi giuocava per sé, cioè non a compagni. Dopo aver fissata la posta per ogni singola fase del giuoco, stabilita la distanza dalla quale si doveva lanciare la staccia, concordata la misura, fatta con un sottile bastoncino di legno, il giuoco iniziava. La posta (monete di metallo, bottoni di ferro) veniva sistemata sulla parte superiore di un pezzo di mattone posto in piedi. I giocatori, provvisti anch'essi di un pezzo di mattone più piccolo e sottile, 'a staccia, uno per volta, dovevano colpire il pezzo di mattone e far cadere i soldi. Il lanciatore che colpiva il pezzo di mattone, poteva prendersi le monete che erano vicine alla sua staccia (ad una distanza inferiore al pezzetto di legno scelto come misura). Se il pezzo di mattone non veniva colpito o se le monete erano fuori misura rispetto alla staccia, lanciava il secondo giocatore il quale doveva far cadere il pezzo di mattone se rimasto in piedi o avvicinare la sua staccia ai soldi che erano sparsi a terra. Al secondo giocatore succedeva il terzo, poi il quarto e così via, sempre che a terra vi fossero rimaste ancora delle monete; caso contrario, il giuoco ricominciava versando nuovamente la posta e rifacendo al tocco per stabilire il nuovo ordine di successione dei lanciatori.

(Tonino Russo)

'A Campana

Puoi giocare a questo gioco da solo o con gli amici.
La regola più importante è che si gioca saltellando su una gamba sola. Per decidere chi sarà il primo ad iniziare il gioco, si fa la conta.
Il primo giocatore entra nella casella TERRA e tira la pietra nella casella con il numero 1.
Saltando su una gamba sola va dalla TERRA alla casella 1, raccoglie la pietra, gira su se stesso e torna alla TERRA. Poi tira la pietra nella casella 2, salta nella casella 1 e poi nella casella 2, raccoglie la pietra e, sempre saltando, torna indietro fino alla TERRA.
Continua tirando la pietra nella casella 3 e va avanti allo stesso modo, fino alla casella CIELO.
Adesso deve giocare in senso contrario, quindi dal CIELO lancia la pietra nella casella 8, poi nella casella 7 e così via fino a tornare sulla TERRA.
Nelle caselle 4 - 5 e 7 - 8, si possono appoggiare entrambi i piedi.
Ma attenzione, in nessun caso la pietra o il giocatore possono toccare le righe che delimitano le caselle. Non pestare mai le righe!
Se la pietra cade in una casella sbagliata o sopra una riga, il giocatore perde il turno e può ricominciare, partendo dalla casella dove ha commesso l'errore, soltanto dopo che tutti gli altri hanno giocato.
Vince chi finisce per primo!

 

'Au Ruoll (gioco del cerchio)

 

 

Si faceva rotolare sul terreno un cerchio (prevalentemente   cerchioni di bicicletta privati dei raggi), questo veniva tenuto in equilibrio da un bastone o da un pezzo di ferro curvato , la cosiddetta MANIGLIA  . Si poteva giocare da soli o facendo gare di velocità con altri.

'U Cavall' luongghji

 

U' CAVALL 'LUONGGHJI

A questo gioco prendevano parte  più giocatori. Chi iniziava doveva appoggiarsi e tenersi a un palo , a un albero, o a un muro,  mentre gli altri dovevano saltargli sulla schiena.  I partecipanti si dovevano dividere in uguale numero tra chi formava ’"u cavall" e chi saliva sulla loro schiena. Quando tutti erano saliti  bisognava resistere per un determinato tempo , se  qualcuno tra quelli sopra perdeva l’equilibrio e cadeva, i ruoli venivano invertiti.

I nimèllƏ 'i fierrƏ

II giuoco 'i ri nimèllƏ 'i fierrƏ poteva essere fatto da due o più ragazzi. Dopo che questi avevano stabilito il numero dei bottoni che volevano, di volta in volta, paràrƏ, cioè giocarsi, con gli stessi facevano una pila. Poi i ragazzi si allontanavano di un certo numero di passi (stabiliti anche in precedenza) e da qui lanciavano, uno per volta, delle vecchie patacche di rame. Con la conta si stabiliva l'ordine di successione dei lanci. Il ragazzo che riusciva a piazzare la sua moneta più vicino ai bottoni, acquisiva il diritto alla battuta. Se, per caso, uno dei ragazzi faceva cozza (cioè faceva cadere la pila dei bottoni), tutti gli altri dovevano ripetere il lancio della moneta. Acquisito, dunque, il diritto alla battuta, il giocatore doveva lanciare, da una certa altezza e di zinnƏ (di taglio) la sua moneta sulla pila dei bottoni e poteva prendersi tutti quelli che con la battuta si erano capovolti, cioè i bottoni che presentavano in alto la parte convessa. Qualunque fosse il numero dei bottoni capovolti, la battuta rimaneva sua, però doveva continuarla su ogni singolo bottone; se, invece, nessun bottone si capovolgeva, la battuta passava al secondo ragazzo, poi al terzo e così via. Anche questi ragazzi la battuta dovevano farla su ogni bottone. La battuta, e ciò era necessario per acquisire la proprietà dei bottoni, si doveva fare non solo da una certa altezza, ma anche con risolutezza perché bisognava evitare ad ogni costo 'a minatellƏ (battuta lenta e ravvicinata). Come già detto, l'ordine di successione dei lanci si stabiliva con la conta, mentre quello della battuta era determinato dalla distanza fra il punto di caduta della moneta e la pila dei bottoni. E' importante ricordare che i bottoni per il giuoco dovevano essere di ferro: quelli di osso, di legno, di cuoio non erano accettati e non erano nemmeno oggetto di contrattazione e di baratto.Alcune volte, un ragazzo estraneo al giuoco passava correndo e gridava: 'u bbirrì, rubando il mucchietto di bottoni. Parente povero di questo giuoco era quello 'i ri nimellƏ, 'i corchjƏ, 'i rancƏ; mentre il parente ricco, chiamato 'a bbissì, era quello fatto con i soldi. In questo caso, poiché si trattava di soldi (anche se di centesimi), bisognava stare molto attenti per prevenire ed evitare, da parte di qualche male intenzionato, 'u bbirrì; inoltre, per la medesima ragione e a scanso di una quasi sicura scerra, non era consentito fare 'a minatélla.

(Tonino Russo)

'I funtanelle

Il gioco detto "i funtanelle" si giocava con due mazze e nu trugghj. Si praticavano nel terreno due fosse, le fontanelle, poste a circa dieci/quindici passi. A competere erano due squadre composte ognuna da due giocatori. Una squadra lanciava, mentre l'altra batteva (come nel baseball). Le mazze venivano tenute appoggiate nelle fosse e il trugghjo doveva finire in una di queste, nel momento che si trovavano vuote. Se così succedeva si scambiavano i ruoli. Quando il trugghjo, nel lancio, veniva colpito, uno dei lanciatori correva a recuperarlo, mentre i battitori, di corsa, si scambiavano ripetutamente di posto. Ogni scambio era un punto da sommare fino al raggiungimento del punteggio finale. Quando il trugghjo finiva nella buca contemporaneamente alla mazza, allora ai lanciatori veniva data una possibilità ulteriore di gioco: andavano a surici. Cioè si allontanavano e si nascondevano il trugghjo addosso. Allorchè ritornavano in posizione, vicino alle fosse, i battitori dovevano scambiarsi di posto, per cui era fondamentale capire quale dei lanciatori avesse il trugghjo, in modo da sviluppare una strategia per neutralizzare la giocata degli avversari. Curiosa era una delle procedure per identificare il portatore del trugghjo. Si toccavano i lobi degli orecchi di questi per valutarne, dal calore sprigionato, chi fosse il furbacchione che lo nascondeva per tirarlo fuori nel momento, opportuno. Poi c'erano altre regole, alcune neanche le ricordo più.(Giuseppe Pellegrino)

Cati c'ammuccia

Sutta 'na troppa cc'è 'nna gallina

 

chi fa ll'ova ogni matina:

 

u purtàma a ra riggina.

 

A riggina nu' nni vò

 

cucuzziella e ppummarò

 

E ssparàma u trik trak

 

guna, ruva, tre e cquattra.

La filastrocca s'accompagnava ad un gioco di ragazzi i quali si disponevano in circolo attorno a colui che conduceva il gioco e che recitava, appunto,la poesiola, accentuando fortemente le singole cadenze metriche indicando contemporaneamente, con l'indice puntato, via via - cadenza per cadenza - i ragazzi, uno dopo l'altro, come si succedevano nel circolo. La filastrocca veniva ripetuta dal conduttore fino al momento in cui restava un solo ragazzo, dopo che gli altri, ad uno ad uno, erano stati invitati ad allontanarsi dal circolo dal gesto del conduttore in corrispondenza della cadenza finale della filastrocca stessa.

Il ragazzo rimasto per ultimo doveva coprirsi gli occhi con le mani, dando tempo ai compagni di nascondersi. Quindi scaduto il tempo stabilito, il ragazzo-cacciatore andava alla ricerca degli altri.

'A vummulilla

Chin'inchjàna,

 

chini scinna

 

chini fà ra vummulilla

Questo "gioco" infantile e molto pericoloso, irrazionale ai tempi di oggi, si faceva in due e consisteva nel ruzzolare stando fortemente abbracciati giù per le "timpe", pendìi scoscesi. Un gioco assurdo. Altre volte questo stesso "gioco", virgolettato perché non è assolutamente un gioco, si faceva con più persone e sempre a coppie. In questo caso, durante la pericolosa discesa, la coppia recitava la filastrocca di cui sopra. Era una gara e vinceva(niente) la coppia che arrivava prima in fondo alla timpa, al pendìì(quando tutto andava bene). 

Alla ricerca dei giochi perduti di Carmine De Luca

La Libertà del Nascondino         

 

Tirato a sorte, uno stava sotto e contava- ad occhi chiusi - fino a trentuno. Gli altri (tre, cinque, sette...) cercavano nascondigli tra i meno prevedibili. Dopo il trentuno cominciava la caccia, che si concludeva in tempi a volte lunghissimi. Quindi, di nuovo daccapo: toccava allo stesso di prima ricontare fino a trentuno, se non era stato abbastanza bravo a stanare i compagni di gioco e ad evitare che toccassero prima di lui la "tana". Oppure toccava al primo che si fosse lasciato scoprire. Nascondino o nascondiglio, le denominazioni più diffuse. Ma è attestato anche "giocare a tana" o più raramente - per esempio in provincia di Ferrara "giocare al cuc". A Corigliano Calabro ,il gioco è denominato 'a petr'i trentund. Una suggestiva descrizione del gioco è l'esordio del romanzo di Massimo Bontempelli, Vita e morte di Adria e dei suoi figli. «"Liberi tutti!" è il più bel gioco del mondo. Non basta fare a nascondersi, non basta fare a rincorrersi. E' un gioco complicato e disteso come una rete. Ecco: v'è un centro, punto di partenza, e si chiama «la tana». Tirato a sorte il cacciatore, costui si mette con la faccia bendata contro la tana, che sarà un albero, un angolo di siepe, uno spigolo di muro; gli altri in punta di piedi vanno a nascondersi, chi qua chi là, mentre colui conta, forte e con un ritmo lento che è ben fissato dalla tradizione, fino a trentuno. Prima ch'egli abbia finito, certo gli altri son tutti a posto, non si sente più un respiro, né un rompere di sterpo. Lui grida «trentuno!» alzando la testa, strappandosi la benda dagli occhi, e si volta e guarda intorno. Alberi, siepi, prati, muri, aiuole; e non un vivente: lui può credersi rimasto solo nel mondo. Guarda lo spazio come fa l'avvoltoio, fiuta come un leopardo, ondula come un serpente, poi si slancia. Di qualcuno dei suoi lepri sa già ove s'è appiattato: è straordinaria l'intuizione che i ragazzi hanno di questo. Ma non basta andare a scoprire il lepre nel nascondiglio. Qui il gioco si complica. Il cacciatore nella sua ricerca ha dovuto allontanarsi, ha fatto qualche svolta, non ha più la via e forse neppure la visuale diretta verso la tana. Ora il lepre scoperto balza e fugge, e se riesce a raggiungere lui la tana, il cacciatore è perduto, l'altro trionfa, e può di là proclamar libero chi vuole, anche tutti: «Liberi tutti!». Dunque, snidatolo, bisogna inseguirlo e afferrarlo a tempo. Intanto gli altri saltano fuori: chi di qua, chi di là; s'erano affondati nel suolo, incarnati negli alberi, disciolti nell'aria; ora avanti ai suoi occhi si riplasmano, riappaiono; lui s'è voltato, è riuscito ad afferrarne due, uno per ogni mano, che è già un'impresa grande, esente la voce d'un terzo dalla tana: «Liberi tutti!». Grande gioco, gioco da generali d'esercito. Vi eccellono i ragazzi tra i sette e i tredici anni. Passati i tredici, le qualità di astuzia barbarica e selvaggia prontezza ch'esso richiede si corrompono; il ragazzo si volge a giochi più violenti e meno immaginosi, la fanciulla comincia a impadronirsi del mondo». C'è chi lo ritiene il gioco più antico del mondo. Se ne possono intuire le ragioni. Nascondersi, apparire e sparire, esserci e non esserci, e miniare, secondo le regole di una precisa strategia, una qualche forma di conflitto fa parte dei riti primordiali. Se è vero che ogni gioco deriva, per graduale "caduta" dal mondo degli adulti alla dimensione infantile, da antichi rituali, il gioco del nascondino probabilmente mima le azioni della caccia dei primi uomini. La caccia aveva regole rigorose. Una volta individuata dai nascondigli la preda, occorreva tenersi pronti a sottrarsi con la fuga ai suoi attacchi o impedire che l'animale sfuggisse alla caccia e si mettesse in salvo nella tana. E' da credere che i bambini già allora, per imitazione, giocassero alla caccia. Uno faceva la parte dell'animale cacciato, gli altri erano i cacciatori. Si giocava, e ci si preparava alla vita, alle prove future, alle strategie della caccia reale. Noi giocavamo a nascondino per diletto, soprattutto nei tardi pomeriggi della stagione dei giochi di strada (dalla primavera al primo autunno). Non era difficile formare la squadra. Anche i più reticenti finivano per accettare. Forse perché celarsi alla vista degli altri è di quei comportamenti che rassicurano e dispongono all'affermazione di sé. Il nascondiglio è punto di osservazione a senso unico: dal nascondino si guarda, si scruta senza essere visti, senza essere controllati. Il nascondiglio diventa ombelico del mondo. Quando si sceglieva di giocare a nascondino, non sempre era per genuine ragioni ludiche. Poteva capitare che la proposta del gioco celasse malizie di diversa natura e portata. Magari si pensava a uno scherzo contro chi stava sotto, a contare - ad occhi chiusi - fino a trentuno, e far di tutto per tenerlo sotto il più possibile (la vittima era sempre il meno scafato, il più sempliciotto). Magari, messe insieme cicche raccolte per strada, si fumava nel nascondiglio l'improvvisata e molto sghemba sigaretta. O magari- ancora meno ingenuamente d'accordo con le bambine, ci si nascondeva in posti il meno possibile prevedibili per giocare ai fidanzati, a marito e moglie, al medico. Il gioco e il nascondiglio legittimavano tutto. Finanche la presenza di mamme, nonne, zie, sedute a sferruzzare fuori di casa, perdeva il carattere coercitivo e autoritario. Col gioco ci si sottraeva al loro controllo. Poteva accadere che gli adulti diventassero complici nell'indicare i nascondigli più sicuri o che depistassero le ricerche. Anch'essi si ritagliavano uno spazio ludico. E la loro complicità diventava a volte ambigua. A me capitò - ne ho la netta memoria - di trovarmi nascosto sotto la cupola formata da un lenzuolo che una giovane promessa sposa ricamava. Fu lei, maliziosamente, a invitarmi nella tana, adatta ad accogliermi e a darmi ricetto. La luce che filtrava attraverso il tessuto bianco del lenzuolo mi concedeva perturbanti visioni. Quel che è stato, non so ora dire. Fu ancora lei che - dopo quanti minuti? dopo quanti giri di gioco?- rivelò il nascondiglio a chi, dopo il trentuno, mi cercava. Certamente, quella sera, scosso, non partecipai più al gioco.

A colpi di monete

 

I giochi possono classificarsi  utilmente secondo la stagione nella  quale vengono praticati. Ma le  stagioni dei giochi, a ben vedere,  sono due, non quattro: si distinguono  i giochi estivi, giochi all'aperto,  e i giochi invernali o giochi  domestici, tra quattro pareti. La  primavera è assorbita dall'estate;  l'autunno continua, in parte, l'estate,  per il resto è risucchiato dall'inverno.  A settembre ottobre, soprattutto  dalle parti nostre, si protraggono  i giochi estivi. Da novembre  si è ormai in inverno.    II discrimine fra le due stagioni  era segnato, ai miei otto-dieci anni,  nei primi anni cinquanta, dall'abitudine,  non so quanto diffusa ma  di ineffabile piacere, di portare o  non portare le scarpe. Le scarpe,  con i primi veri caldi - a giugno, a  luglio - si toglievano e si rimettevano  a settembre. Si usciva di casa  doverosamente con le scarpe ai  piedi, ma appena fuori dal tiro dei  familiari ci si metteva scalzi. Gli  inevitabili incidenti provocati da  dolorosi e sanguinolenti incontri  con schegge di vetro o con chiodi    o con l'ortica erano compensati  dalle delizie elargite dal sempre  gradevole contatto dei piedi con  l'erba fresca, con il pastoso fango,  con la sabbia tiepida.  Sapevo bene allora che andare  in giro scalzi era inequivocabile segno  di miseria, era indizio certo di  bassa collocazione sociale. E' per  questo che i piedi scalzi osavano  soltanto deserti campi, sentieri fuori  dall'abitato, mai vie cittadine,  per quanto queste fossero poco frequentate.     Nella stagione dei piedi scalzi si  giocava a battimuro.  A battimuro si era autorizzati a  giocare dai 12-13 anni in su. Autorizzati  da chi e da che cosa? Dalle  tacite norme che si formano e si  istituzionalizzano col tempo nel  collettivo di ragazzi. Per giocare a  battimuro occorre disporre di una  maturata coordinazione di movimenti  (è abbastanza complessa la  torsione del busto per la battuta),  di una buona percezione delle distanze,  di un sufficiente controllo  della forza che va impressa alla  moneta battuta al muro. E non è  pensabile che prima dei dodici  anni si sia capaci di tanto.    Si accedeva al gruppo di piccoli  giocatori prima di tutto se si poteva  contare sulla disponibilità di  una congrua quantità di monete.  Che venivano rintracciate con ansiose  ricerche nei fondi di cassetti,  in polverosi recipienti d'ogni genere  dimenticati o abbandonati nelle  zone meno in vista di casa (erano - che  so - vasi che una volta avevano  dignitosamente ospitato fiori e  che, a seguito di chissà quali eventi, dispensati dalle originarie funzioni,  erano adibiti a pigri contenitori  di ogni cianfrusaglia).    Le monete disponibili, tra gli  anni quaranta e cinquanta, erano  diverse, tutte fuori corso, residui  del sistema monetario dell'Italia  dei Savoia e del fascismo. Sul davanti  recavano tutte il profilo, volto  a destra o a sinistra, di Vittorio  Emanuele III («Re e Imperatore»,  era scritto lungo il bordo).    Sul retro avevano soggetti differenti.     Le due lire in acmonital (acronimo  per «acciaio monetario italiano  » che ad inizio della seconda  guerra mondiale aveva sostituito il  nichelio a causa dell'alto costo di  questo metallo) recavano l'immagine  dell'aquila imperiale con ali  spiegate e nel basso lo stemma sabaudo.  I 50 centesimi in nichelio  avevano l'allegoria dell'Italia, con  fiaccola nella sinistra, su carro trainato  da quattro leoni; sui 20 centesimi  in nichelio era indicato il valore  della moneta inscritto in un  esagono; i 20 centesimi in nichelio  avevano la testa nuda dell'Italia  rivolta a destra, con alla sinistra il  fascio littorio; i 10 centesimi in  rame un'ape su un fiore; i 5 centesimi  in rame una spiga di grano.    La qualità del metallo determinava  i risultati del gioco, l'agilità  della traiettoria dal muro alla meta.  Con i soldi di acmonital e di nichelio  si avevano esiti esaltanti. Era  più agevole afferrare tra le dita le  due lire o i 50 centesimi. Rimbalzavano meglio, avevano una più  efficace capacità balistica. A saperne  regolare la battuta sembrava  magica la loro abilità a accostarsi  alla moneta dell'avversario.    Se scendevi in campo attrezzato  di monetine di rame eri destinato  a sicura sonora disfatta. Perdevi  tutto. Dieci e cinque centesimi erano  irreparabilmente divorati dalle  monete più grosse.    Ogni tempo ha avuto le sue  monete preferite per il battimuro.  Fra fine Ottocento e inizio del secolo  si giocava con i dieci centesimi  di rame. Vasco Pratolini nelle  Cronache di poveri amanti scrive di  ragazzini che, ad inizio di secolo,  «giocavano a battimuro coi diecioni di Re Umberto».    Le regole del battimuro sono  semplici. Si segna una riga per terra  (la meta) ad una certa distanza  dalla parete di un edificio. Bisogna  avvicinarsi a essa con la moneta  che colpisce il muro. Oppure accostarsi  di una certa unità di misura    - un palmo, poniamo, o la lunghezza  di un bastoncino oppure di uno  spago - alla moneta che l'avversario  ha precedentemente battuto.  Questo secondo modo di regolare  il gioco è materia dei versi del lucano  Leonardo Sinisgalli: 

I fanciulli battono le monete rosse

Contro il muro. (Cadono distanti

Per terra con dolce rumore.) Gridano

A squarciagola in un fuoco di guerra.

Si scambiano motti superbi

E dolcissime ingiurie. La sera

Incendia le fronti, infuria i capelli. 

Sulle selci calda è come sangue.

II piazzale torna calmo.

Una moneta battuta si posa

Vicino all'altra alla misura di un palmo.

Il fanciullo preme sulla terra

La sua mano vittoriosa. 

Se si voleva vincere occorreva  avere pieno controllo delle componenti  del gioco, soprattutto della  traiettoria della moneta (angolata e  con «effetto» oppure diritta o di  piatto) e del tipo di muro.    Per un lungo periodo si preferì  adottare per i nostri giochi la porzione  di muro tra il portale della  chiesa di S. Antonio e l'ingresso  dell'istituto Garopoli. Aveva un  intonaco omogeneamente robusto e pieno. D’altronde quel luogo  presentava la difficoltà di un ciottolato irregolare  sul quale  le  monete rimbalzavano  senza  che  se  ne  potesse prevedere  il  punto  d'arrivo. Capitava  che  si  giocasse  mentre  in chiesa si svolgevano  rituali  funebri con lacrime   più  o  meno  sincere  che potevano celare furenti liti su eredità da suddividere, oppure mentre si celebravano nozze : a volte matrimoni riparatori, con pance gravide nascoste da ampi  abiti bianchi, matrimoni che esibivano  felicità apparenti e forzate  dopo spietate contese per doti sempre  più consistenti pretese - come  usa da noi - dalla famiglia di lui.    Insomma, tutto come oggi. Nulla  è cambiato, se non che le monete  non si battono più. I nostri ragazzini  fanno giochi virtuali. Surrogati  di battimuro sono offerti dallo spazio  artificiale del computer.    

Nu juochi cu ri copparielli

Veniva tracciata sul selciato, con del gesso o anche con una semplice pietra/mattone, una sorta di pista con una casella di partenza, altre di traguardi intermedi ed una finale.

L'abilità dei concorrenti consisteva nello spingere a turno la propria pedina, quasi sempre si trattava di un tappo a corona delle vecchie bottiglie di vetro (gassose), con le dita (a pizzicotto o a "spinta"). Vinceva, si fa per dire, perché non c’era alcun premio, se non la soddisfazione di arrivare primo, chi concludeva prima degli altri il percorso. Ogni qual volta che si usciva fuori dal percorso stabilito, si tornava all'ultimo traguardo intermedio raggiunto.

Fonte : Antonio Russo - Carmine De Luca - Luigi De Luca - Enzo Viteritti - La Rete - Gerardo Bonifiglio - Giorgio Candia

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