Usanze popolari

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Usanze Popolari

Quando moriva una persona era consuetudine accendere un cero, una candela o, in genere, un lumino, riponendolo sul davanzale della finestra o sul balcone della stanza dove era spirato il defunto. Questo gesto avrebbe illuminato e reso meno faticoso il cammino dell'aldilà alla persona che era venuta a mancare. Poi, si offrivano tre panini alle persone più bisognose del vicinato.

Tutte le donne una volta partorivano in casa, assistite da una vammana e da alcune vicine di casa. Queste ultime, poi, le portavano “Un pacco di filarini e nnu pallummielli”, affinché la donna si riprendesse dal durissimo travaglio del parto.

Una volta quando una mamma svezzava il proprio figlio, con il latte del suo seno spegneva tre carboncini accesi. Poi conservava gelosamente questi carboncini e li riaccendeva prima di iniziare ad allattare un altro figlio. Secondo un'altra versione, con il latte del seno la donna spegneva tre pezzetti di sale arroventati che conservava con molta cura in un panno bianco. Quando, poi, iniziava ad allattare un altro figlio, pestava questo sale 'ntru murtàli e lo adoperava per condire i suoi cibi.

Una madre che, per amicizia o anche per danaro, allattasse il bambino di una donna senza latte al seno, chiamata “mamma di latte”, guardava sempre nelle fasce del neonato per vedere se vi era nascosto del sale. Se lo trovava, lo toglieva per evitare che la madre del piccolo mangiando quel sale le «rubasse» il latte. 

Ed ancora: se ad una madre che allattava il proprio figlio, veniva chiesto del sale in prestito da una vicina da poco partorita e senza latte al seno, non lo andava a prendere mai con le sue mani, ma lo faceva prendere da una sua figlia, perché se lo avesse toccato lei, la donna con quel sale avrebbe condito i suoi cibi «rubandole» il latte.

Quando una persona raccontava ad un amico/a di una malattia capitata ad un congiunto o amico/a nel toccarsi la parte che voleva indicare la sede della malattia stessa, quasi a volere allontanare da se stessa l'evento, usava una bellissima frase apotropaica : "Ccu ru buoni mi tuocchi".

Se ad una donna che ha partorito di recente, ad una puerpera, il latte non le scendeva al seno, le si mettevano in bocca tre pizzichi di sale e poi le si massaggiavano, con la sua saliva salata, le spalle, ripetendo per un numero dispari di volte la filastrocca: latti 'i r'arrìeri vatinni ‘i ra avanti, catiegni 'i minni chi su 'bbacanti.

Se ad una donna appena partorita non le scendeva il latte dal seno e pensava di essere stata derubata da qualche altra donna, per riaverlo doveva eseguire un particolare rito, detto 'u pèni 'i ri setti Giuvanni. Cioè doveva andare a chiedere sette pezzetti di pane a sette persone di nome Giovanni. La donna con questo pane faceva una zuppa con acqua, olio e sale, il cosiddetto panicuotti. Mangiando, poi, questa zuppa, si dice che il latte sarebbe ritornato al seno entro pochissimo tempo

‘U vini firrèti era del vino nel quale si stemperava un pezzo di ferro arroventato, che si faceva bere ad una donna incita per evitare che abortisse a seguito di qualche grave spavento.  

Quando due donne si litigavano erano tante le parolacce che si scambiavano. Qualche volta addirittura si accapigliavano pure. Alla fine del litigio la donna meno soddisfatta andava, poi, di notte a spargere sale e pepe davanti la porta della rivale per augurarle del male, la cosiddetta magarìa.

Una volta era molto diffusa la nomea di “iettatore” per alcune persone. Bastava portare un paio di occhiali scuri ed avere un carattere schivo per essere subito ritenuto in grado di esercitare influssi malefici. Così quando una donna vedeva passare una persona siffatta, oltre a fare i dovuti scongiuri, si precipitava a scopare davanti la porta.

Se una donna incinta vedeva passare davanti alla sua porta una persona brutta o con qualche difetto fisico si faceva un segno di croce sulla pancia, pronunciando al tempo stesso le parole: arma netta, maturi senza rìfetti, per evitare che il futuro figlio potesse nascere con qualche difetto.

Una volta le donne trovavano nella condivisione del vicinato uno spazio effettivo di integrazione. Ma non sempre era così. Infatti quando una donna andava a raccontare alla vicina di casa qualche guaio non era ben accetta. A tal punto che appena la piagnucolosa andava via, la padrona di casa si affrettava a scopare la casa per portare fuori tutti quei guai raccontati, dicendo ad ogni scopata : appriess’a ttija, appriess’a ttija

Quando una persona indossava per la prima volta un abito nuovo, la cosiddetta mutanna nova, le veniva messo nel taschino della giacca un pezzettino di sale, per evitare che venisse affascinata

Durante il suono dell'Ave Maria, le donne evitavano di guardarsi allo specchio e di scopare la casa. Il guardarsi allo specchio era un atto di narcisismo che avrebbe fatto rallegrare il diavolo; mentre lo scopare la casa era un malaugurio per i componenti della famiglia.

Se una donna incinta era seduta tenendo le gambe allungate ed un bambino per gioco le scavalcava, subito la donna o qualche presente lo facevano passare di nuovo sulle gambe per evitare che il nascituro venisse al mondo con il cordone ombelicale attorcigliato al collo e, quindi, con il pericolo che potesse morire per soffocamento

Se cadeva per terra una bottiglia d’olio e si rompeva, appena dopo si buttava sopra del sale fino, per scongiurare altri eventi negativi per i componenti della famiglia.

Anticamente le donne evitavano di fare il pane di domenica, perché non era ben visto da Dio. Come pure evitavano di intrecciare i capelli di venerdi : Maliritta sta trizza, cu venneri unn s’intrizza.

Ritornando da un funerale non si deve entrare direttamente nella propria casa o in casa di parenti o di amici, ma si deve entrare prima, per esempio, in un bar o in genere in un luogo pubblico, perché, altrimenti, sarebbe un malaugurio.

Anticamente al neonato, per proteggerli dagli affascini,  veniva messo all’interno della fascia, che gli avvolgeva il corpo fino al torace, un sacchettino con un pizzico di sale e una immaginetta sacra. 

Se una persona stava in piedi con le gambe divaricate ed un ragazzino per gioco vi passava sotto, allora si diceva che il ragazzino non sarebbe cresciuto più. Per evitare questa triste evenienza si costringeva il ragazzino a fare il percorso a ritroso, cioè di ripassare sotto le gambe. La stessa cosa sarebbe accaduta se un bambino fosse stato picchiato in testa con una canna.

Se, durante la gravidanza, ad una donna veniva la voglia, detta comunemente gulìa, di un cibo particolare o di un frutto fuori stagione, non doveva toccarsi nessuna parte del corpo, perché se lo avesse fatto il nascituro sarebbe venuto al mondo con quella voglia sul corpo, proprio là dove la madre si era toccata.

Era, ed è anche oggi, un segno di malaugurio aprire l'ombrello in casa o appoggiare il cappello sul letto. Il motivo è dovuto al fatto che, un tempo, quando il prete andava ad amministrare il Sacramento dell'Estrema Unzione, era accompagnato dal sagrestano con l'ombrellino di seta aperto e appoggiava il suo cappello sul letto del defunto.

Per rimediare al mal di orecchie, si metteva un mattone di argilla all’interno di un caminetto acceso. Una volta riscaldato, sul mattone con un utensile si disegnava una “S”, come segno di Salomone e lo si metteva per un breve tempo sull'orecchio dolente. La “S” rimaneva impressa sull'orecchio ed il dolore poco dopo cessava. (… almeno quello dell’orecchio)

Quando una persona entrava in una casa in cui si stava travasando il  vino dalle damigiane alle bottiglie o si sta facendo il pane, oppure ancora si stava manipolando la carne di maiale per fare a sazizza, o si stanno friggendo i cullurielli per festeggiare qualche lieto evento, questa persona doveva dire Santi Martini” ed i familiari dovevano rispondere “bboni vinuti”. Queste parole volevano essere al tempo stesso un segno di sincera partecipazione all'evento ed un augurio per la buona riuscita di ciò che si stava preparando.

Anticamente il primo venerdì di marzo i componenti di ogni famiglia si tagliavano un ciuffettino di capelli dalla parte delle tempie. Ai bambini più piccoli l'operazione del taglio veniva fatta dalla mamma o dalla sorella maggiore. Era convinzione popolare che questo rito del taglio dei capelli servisse a farli crescere più sani e robusti, evitando così fastidiosi mal di testa per un intero anno.

Se una falena, detta comunemente palummella, entrava in casa e si metteva a girare attorno ad una fonte di luce, voleva dire che l'anima di un familiare defunto era andata a far visita ai suoi congiunti. Quando, invece, entrava in casa un coleottero, detto comunemente “monachiello” era un buon segno, perché esso annunciava l'arrivo di buone notizie e l'approssimarsi di eventi felici.

Per sapere in anticipo se una donna incinta avrebbe partorito un maschio o una femmina, si tagliava da una limetta, chiamata comunemente piretta, la parte estrema superiore, a forma di cerchio, cioè l'umbone, e si lanciava in aria. Se l’umbone cadendo presentava la parte convessa, il nascituro sarebbe stato un maschio, se presentava la parte opposta, sarebbe nata una femmina. (Non sempre il metodo funzionava)

Se un componente della famiglia faceva un brutto sogno e la mattina lo voleva raccontare, prontamente interveniva la madre per impedirne il racconto, invitando il familiare ad andare a raccontare il sogno a San Giovanni, così :

Cchi bbiell suonnu ca maji sunnèti

a SSan Giuvanni hai cuntèti,

San Giuvanni 'u và ccuntann’a Ccristi,

cchi bbiell suonnu ch'è stèti chisti.

Cent’anni a jiri e cent ‘anni a bbinìri 

meji su suonnu add’accariri.

Anticamente per fare guarire i geloni era sufficiente bussare alla porta di un vicino di casa, attendere la domanda di quest’ultimo, “Chini gghè?” e rispondere subito, “’U ruosilàri … ti cci lass’i rùosili e mmi nni veji”. Si dice che i geloni dopo pochi giorni sparivano(?)

Anticamente si credeva che durante la notte della vigilia dell’Epifania i muri diventassero ricotta e dalle fontane, dai canali, scorresse l’olio. La gente di un tempo era così convinta che il Comune, per evitare contestazioni popolari, non interrompeva, durante tutta la notte dell’Epifania, l’erogazione dell’acqua a tutte le fontanelle pubbliche. Si racconta che una mamma la notte del 5 Gennaio, accorgendosi di non avere acqua da bere, mandò uno dei suoi figli alla vicina fontana per riempire i vummuli d’acqua. Solo la mattina successiva, la mamma si accorse  che i vummuli erano pieni di olio. Infatti la condizione necessaria per poter assistere a questi avvenimenti, secondo la cultura popolare, è quella di essere ”sinceri” , e cioè non essere a conoscenza di nulla.

La sera del martedì grasso, ultimo giorno di Carnevale, la cosiddetta ‘a sir'azèti, si doveva, durante la cena, evitare ad ogni costo di starnutire; ma se per puro caso un familiare o un invitato si lasciava scappare uno starnuto incontenibile, si affrettava a coprirsi con le mani gli occhi o ad abbassare la testa per evitare che il suo sguardo si posasse su uno dei presenti, perché se malauguratamente ciò accadeva, il malcapitato sul quale si posava lo sguardo sarebbe morto entro l'anno. Ecco, a tale proposito, cosa si recitava la sera del martedì grasso, prima della cena :

‘A Sir'azèta

‘a tavula, na parèta e nna gazèta,

e si ti vena di starnutèri 

a nissuni ‘ntra faccia a guardèri

Quando si mandava un ragazzo, spesso un garzone di bottega, “a fare un servizio”, cioè a sbrigare una commissione fuori bottega, come, per esempio, portare la spesa a domicilio, per evitare che lungo la strada perdesse tempo, 'ndantassa, o si mettesse a giocare con i compagni, si mintiv’a sputazza. Si lasciava cadere a terra uno sputo e poi si diceva al ragazzo: Joca a bbiniri ca s'a sputazza si sicca, tu muori. Naturalmente era solo un modo per far capire al ragazzo di non perdere tempo.

Quando si rovesciava un bicchiere di vino a tavola e qualche schizzo raggiungeva una persona, questa soleva bagnare le dita sul vino caduto,  se le portava alla nuca e in senso augurale diceva : Gghè miegghji  ghessiri 'mbus’i vini chi r’acqua santa.

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