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Nicola Abenante e Leone Somma
Partirono con altri cinque fraticelli, nella primavera dell'anno 1227, dal loro cenobio sito ai piedi di Corigliano, in località Pendino. Nicola Abenante, di nobile casato, e Leone Somma, di cui nulla si sa oltre il nome, erano coriglianesi, ma alla tranquillità della cella, in fondo garantita dalla presenza delle rispettive famiglie in paese, preferirono l'avventura rischiosa della missione in terra lontana. A ciò li destinava la regola dei Minori conventuali e l'esempio di San Francesco d'Assisi, loro modello. Partirono "allegri e giulivi" , per come riferisce l'Amato nella sua Crono-istoria, e viaggiarono per lunghi sei mesi, risalendo la nostra penisola; poi, dopo aver ricevuto in Toscana "la benedizione del Santo Poverello di Assisi" , piegarono, attraverso la Francia e la Spagna, dirigendosi verso la costa fatale del Marocco, in Africa. Dicono le cronache che il viaggio fu felice, ma aggiungono anche che esso avvenne a piedi e a mezzo di barca, sempre fidando sull'altrui carità. Approdarono a Ceuta in Marocco, sullo stretto di Gibilterra, il 26 settembre dello stesso anno 1227, accettati sulle prime e, subito dopo, messi in carcere, non appena iniziarono la loro predicazione. Avendo rifiutato di abiurare, vennero, per derisione, denudati, poi, flagellati e decapitati, per ordine del re Ascaldo. Essi così tinsero, annota Pier Tommaso Pugliesi nella sua Istoria apologetica di Corigliano "col proprio sangue la porpora del loro martirio presso il Marocco, a prò' della fede di Gesù Cristo". Qualcuno li scambiò per matti, forse, a motivo della lunga veste con cappuccio o, meglio, per la rinuncia a qualsiasi forma di difesa; altri colsero, invece, la portata del messaggio e lo stroncarono, perché chiaramente eversivo rispetto all'Islam. La tragedia si compì il giorno 10 di ottobre, barbaramente ed in maniera pubblica. Alcuni mercanti genovesi e pisani, colà presenti, riferirono che il supplizio si consumò nella preghiera e nel perdono degli assassini, come già avvenuto per i primi cristiani. Fra' Mariano da Genova, testimone oculare, il quale aveva avuto anche la possibilità di parlare con loro, registra ogni cosa, dall'arrivo dei Frati fino al martirio, e tutto, poi, trasmette al Vicario generale, sotto forma di deposizione. I martiri di Ceuta furono canonizzati il 22 gennaio del 1516 dal Papa Leone X. A Corigliano il loro culto fu sempre vivo. Ad essi fu eretta una chiesetta, appena ai confini con il Comune di S. Giorgio; una cappella fu loro dedicata nella chiesa dei Cappuccini, già officiata a festa il 13 di ottobre; a Nicola, infine, fu consacrata una cappelletto, dalla famiglia degli Abenante, nella chiesa di Sant'Antonio. Delle reliquie dei due concittadini martiri, purtroppo, nulla si sa. Nel 1989, il 2 di luglio, le autorità cittadine, a memoria del martirio, hanno voluto collocare, sulle 12 antiche mura cittadine, un pannello bronzeo istoriato, a tutti i Martiri di Ceuta hanno intitolato una via e ai Santi Nicola e Leone hanno dedicato pure una piazza. Una nuova Parrocchia di Corigliano Stazione, da poco istituita, porta il loro nome.
Matteo Persiani
Rampollo di nobile famiglia, ebbe modo, giovinetto, di trasferirsi a Napoli e compiervi gli studi di legge. Gran privilegio, se si considera che a Corigliano, nel '500, i più si spostavano dalla propria dimora per recarsi alla bottega, nel perimetro urbano, o, tutt'al più, alla vicina campagna, per motivi di lavoro. La laurea il giovane Persiani la conseguì e bene, ma non volle saperne di esercitare la professione giuridica, cosicché si portò a Roma, per avventurarsi nella ricerca teologica. Probabilmente, aveva già deciso la sua strada, se, di lì a poco, lo ritroviamo Cappuccino. E da religioso. Cappuccino edificò se stesso, servì l'Ordine, all'interno del quale espletò incarichi prestigiosi, e diede lustro a Corigliano. Padre Matteo visse sempre nell'austerità e nell'obbedienza, coerente alla Regola ed, ancor prima, ad uno stile connaturato, che si appagava nel poco e nella rinuncia. Si nutrì, secondo gli annali cappuccini di Padre Pellegrino da Forlì, di "cibi di stretto magro" e di preghiera e volentieri accettò di recarsi "in molte terre e rispettabili città con indicibile profitto e conforto delle anime", per predicarvi "con fuoco e brio sorprendenti" la buona novella, "in virtù della grazia con cui favellava. Nell'ordine godette di grande considerazione e di ciò fanno testo le missioni svolte e le cariche ricoperte, come quella di Ministro provinciale. Ebbe, oltre misura, le virtù della pazienza e della fermezza, se è vero che, visitatore del convento del Patire, posto su un'altura tra Corigliano e Rossano, per incarico pontificio, riuscì lì- e non fu cosa da poco - ad innalzare il decoro monastico, forse, da tempo sbiadito. A Corigliano, ove era nato nel 1552, volle edificare, trentenne, nella parte più alta e panoramica del paese, la chiesetta di Sant'Anna ed in essa collocò un busto policromo, in creta, dell'Ecce Homo, da lui portato dalla Spagna ed ancora oggi implorato dalla comunità locale per la sua prodigiosità, perpetuandosi il ricordo di quando, condotto in processione dal popolo, in tempo di siccità, accordava, copiosa, la pioggia. Forse, a Corigliano, Padre Matteo fondò anche un monastero di suore Cappuccinelle. Nel convento, adiacente alla chiesa, visse una interminabile esistenza e lì fu sepolto, quando, novantasettenne, l'anima sua fu vista da un frate, che in quel mentre pregava, "essere dagli angeli portata in cielo" . Risulta, dal racconto di alcuni autorevoli storici, che il Cappuccino avesse anche predetto il giorno della sua morte. Nella pietà popolare sopravvisse, il Persiani, come "l'anacoreta" delle terre di Calabria. Dispiace che delle sue opere, pubblicate o solo manoscritte, in prosa ed in versi, tutte, comunque, altamente stimate dai contemporanei, non siano state rinvenute copie e neppure frammenti, quantunque le scrupolose ricerche di non pochi cultori di storia patria. Permangono, comunque, del buon frate e dei suoi successori l'insegnamento della povertà e, soprattutto, alcune belle pratiche devozionali, quali le Quarant'ore e la Via crucis, che la tradizione consegna, integre ancora, alla pietà popolare.
Girolamo Garopoli
Quando vi nacque, nell'anno 1606, Corigliano era Un grosso borgo collinare con poco meno di diecimila abitanti, sparsi in circa 1500 fuochi, come allora si diceva. II papà, modesto muratore, e la madre, casalinga, avevano dimora alla Portella e lì Girolamo Garopoli crebbe, destinato al sacerdozio, per come consigliavano il bisogno e la sua inclinazione agli studi. Nella vicinissima chiesa di Ognissanti trascorse, così, gran parte del suo tempo, facendo il chierichetto e l'assistente, soprattutto, dopo la morte improvvisa del genitore, che lo lasciò, dodicenne, nella precarietà. Ingegno e volontà di certo non gli difettarono, se, circa ventenne, lo ritroviamo a Roma, bene inserito nel panorama umano e culturale della città papalina. Lì ebbe posto e visibilità nell'Accademia degli Infecondi e con sé lo tenne, come segretario, don Filippo Colonna, che nel Regno di Napoli occupava, allora, la carica di Gran Contestabile. A Roma ebbe rapporti con i Mazarino, Pietro e Giulio, con i Pontefici Urbano Vili ed Innocenze X, ma, soprattutto, maturò, nel tempo, chiari ideali francofili. Si convinse, ad un certo punto, che i mali del paese e del meridione, in particolare, fossero dovuti alla dominazione spagnola e si diede a vagheggiare un'Italia indipendente, governata dal Papa, ma garantita dalla Francia. Tale atteggiamento politico non poteva conciliarsi con una città, Roma, sempre più collegata, attraverso il clero, alla Spagna e dove un'aristocrazia idealmente rinunciataria s'appagava di soli privilegi fiscali. "Ritrassi poscia il piede e dissi addio/ corte, addio vile ambizione e vana. / E raccormi alla patria ebbi disio" (II Carlo Magno). Ritornò, così, quarantenne, a Corigliano, Arciprete, in Santa Maria della Platea, nel 1646. Vi rimase tredici anni, ma non v'ebbe la tranquillità desiderata. Sospeso per quattro mesi dalla cura della parrocchia, per aver concesso in enfiteusi una vigna, senza la prescritta autorizzazione e, poi, angustiato dai maligni, preferì, nel gennaio del 1659, lasciare la carica di arciprete e ripartire, di nuovo sconfitto, per Roma. Evidentemente, l'antico fastidio per un ambiente asservito alla Spagna, si ripresentò più acuto a Corigliano, attesa la signoria dei Saluzzo, per molti versi illuminata, ma pur'essa spagnofila. A Roma visse venti anni ancora, nel declino della vita, con 30 ducati di pensione, e vi morì nel 1678. Corigliano, di cui aveva descritto gli abitanti come "forti e d'alto ingegno" e le campagne come " i Campi Elisi" , lo onorò, intitolandogli, nel 1865, scuola media e ginnasio superiore, che, oggi, però, non portano più il suo nome. A lui, così, resta solo intitolata la via ove nacque. Poco. Troppo poco. Di Girolamo Garopoli, poeta, rimane a noi "II Carlo Magno" , poema epico-cavalieresco in 16 mila versi circa, ariostesco per forma, ma con dentro i sogni dell'autore e i tanti disinganni. Oggi, coloro i quali ricordano il Garopoli, lo fanno proprio per questo suo poema. Pochi conoscono l'intensa sua vita, che andò ad intrecciarsi con le vicende storiche nazionali del tempo; pochissimi sanno che per un ideale di libertà, rinunciò sia agli onori romani che alle comodità del paese.
Domenico Carusi
Negli anni, che, lentamente lo portarono alla giovinezza, Domenico ebbe vita facile e bella. Nella casa, antica e ricca, ove nacque, nella parte più storica del paese, il 20 luglio del 1770, in via Serratore, trovò, infatti, ogni sorta di bene e, soprattutto, una famiglia, che, al censo elevato univa il nome illustre e la considerazione. Potè permettersi, così, da giovane, un'ottima educazione, resa più ornata dalla presenza in casa di due zii sacerdoti e del papa avvocato. Anche lui si addottorò in legge, a Roma, e di là tornò in paese, nel 1793, con un bagaglio culturale sì solido che gli consentiva di spaziare dall'area umanistica alle lingue moderne. Nella grande città aveva fatto anche tante belle conoscenze, soprattutto, quale membro dell'Accademia dell'Arcadia. A Corigliano mise su famiglia ed in essa, allietata da cinque figli, si completò con gioia. Intanto, l'espletamento dei primi incarichi lo rivela uomo intelligente ed onesto. Dal papà ereditò le buone virtù domestiche ed il senso dell'onore, nonché l'avversione per l'ambiente ducale locale, ma non l'attaccamento alla dinastia borbonica. Domenico Carusi, infatti, fece suoi, senza calcolo di tornaconto, gli ideali della rivoluzione e fu, sinceramente, filofrancese, pur rifuggendo qualsiasi forma di violenza e di settarismo. Quando iniziò, a Corigliano ed in Calabria, il decennio francese, nel 1806, per lui fu pressoché naturale passare all'impegno politico concreto, sicché ebbe incarichi delicati e di prestigio nei paesi vicini e fu, in ultimo, anche sindaco operoso di Corigliano. Divenne, per quello che fece, persona ammirata e tenuta in conto, ma risvegliò anche le invidie e gli odi e, perciò, sopportò diffamazioni e violenze. Più volte, i briganti gli bruciarono case e proprietà e gli saccheggiarono finanche l'abitazione in paese. Lui continuò dignitosamente per la sua strada, giacché pensava che delinquenza e brigantaggio andassero risolti nelle cause, promovendo il risanamento ambientale e l'agricoltura, l'istruzione ed il lavoro. E ciò lo rese sempre più credibile, tanto che, quando tornarono i Borboni, nel 1815, conservò integro il prestigio e fu investito, ancora, di onorifiche cariche. Stanchezza, forse, e delusione gli consigliarono di ridimensionare il suo impegno pubblico, a vantaggio dell'altro, nella cura degli affetti e del patrimonio familiare. Mentre gli avversari, intanto, continuarono ad infastidirlo con la subdola arma della diffamazione, il Carusi mantenne serenità e decoro, pago degli attestati di stima degli amici e delle autorità, nonché delle tenerezze della moglie e dei figli. Soprattutto, lo sostenne la fede in Dio, che gli impedì di scendere sul terreno della meschina vendetta. Arrivò, poi, il giorno della tragedia e del crollo: fu il 2 agosto del 1825, quando, nel cuore della notte, gli penetrarono in casa i briganti e gli uccisero il figlio Giuseppe. Era il secondogenito, laureando in legge e, come il papà, si dilettava di poesia. Immenso fu il dolore, senz'altro acuito dalla coscienza di non averlo meritato, e poco, per la verità, lo lenirono il trasferimento nel nuovo palazzo dell'Acquanova e le affettuose attenzioni degli amici. II 27 agosto del 1829, nello strazio delle memorie, si sparò, infine, un colpo di fucile. Prima di morire, ebbe il tempo di affidarsi alla preghiera. Morì un galantuomo, irreprensibile in famiglia ed in pubblico, colto e religioso, aperto al nuovo ed, insieme, custode delle buone tradizioni. D'ogni cosa resta traccia nelle epistole e nei versi che scrisse e che io, ammesso dagli eredi nel suo archivio, ho avuto l'onore di leggere nella versione originale. Un giorno, in un momento di mestizia, paragonandosi ad un ruscello, disse, poetando: "Ruscello, noi sembriamo aver la stessa sorte, /con un corso veloce, noi andiamo l'uno e l'altro, /voi al mare, noi alla morte.". Voglio pensare che, prima di spegnersi, abbia recitato nel cuore il suo Miserere: "Pietà, mio Dio, se pur grave è il pondo/ dei falli miei, molto ancor maggiore/ sia tua bontade e d'ogni lezzo il cor/ rendimi mondo" .
Antonio Toscano
A Corigliano nacque nella strada, che ora porta il suo ! , il 22 gennaio del 1774, in una famiglia facoltosa ed illustre, nonché numerosa e concorde. Dalla madre, donna virtuosa, ereditò la
cortesia dei modi; dal padre, avvocat0o ed amante della libertà, apprese la vivacità del pensiero. Il biondo dei capelli e l'azzurro degli occhi lo resero d'aspetto piacevole e, in certo
modo, misterioso. II periodo trascorso a Napoli, dal 1787 al 1792, per trasferimento colà della famiglia, fu per Antonio Toscano determinante. Spirito libertario, infatti, s'incontrò
naturalmente con gli ambienti massonici e generosamente li animò anche e li propagandò. Quando i Toscano ritornarono in paese, a seguito della morte del padre, la famiglia, tutti d'accordo,
volendo contenere gli entusiasmi repubblicani di Antonio, sin troppo manifesti, lo affidò a Luigi Rossi, precettore, e, nel contempo, lo propose al sacerdozio. Al voto sacerdotale Antonio non
giunse mai, per difetto vocazione; col Rossi, invece, del quale ancora la gente non conosceva gli ideali rivoluzionari, fondò a Corrigliano, nel 1793, la Loggia massonica "la sala di Zaleuco"
. E tanto si legò al Rossi, che, quando questi, scoperto nei suoi disegni eversivi, dovette riparare a Napoli, il Toscano lo seguì, nel 1795, e con lui finì anche in galera dal '96 al '98.
Scarcerato, ridiscese a Corigliano, ma, qui, senza l'affetto della madre, nel contempo deceduta, dovette sentirsi non più a casa. Perciò, acconsentì all'affettuoso, ma pressante invito del
fratello, di portarsi a Cosenza, per completare gli studi. Il suo destino, però, ormai già segnato e la nuova amicizia con Francesco Saverio Salfi, sacerdote e massone, lo rese più chiaro.
Così, quando da Cosenza partì una squadra di volontari in difesa della sfortunata Repubblica Partenopea, il Toscano fu con essa e a lui, anzi, venne affidato il comando dei 150 legionari
calabresi, a presidio del fortino, sfortunato e glorioso, di Vigliena, alle porte della martoriata città di Napoli. Sul far della sera del 13 giugno 1799, le truppe borboniche del Cardinale
Ruffo posero l'assedio al forte e per gli eroici difensori, dinanzi all'esuberanza numerica degli assalitori, non vi fu scampo. Si combattè senza risparmio di forze, d'ambo le parti, poi, il
Toscano, quando s'avvide che la fine era prossima per sé e per i pochi compagni ancora superstiti, si trascinò, ferito, alla polveriera e, come già il piemontese Pietro Micca a Torino nel
1706, v'appiccò il fuoco. Lo scoppio distrusse la fortificazione e seppellì insieme vincitori e vinti. Rimase salvo soltanto tale Vincenzo Fabiani, che, da testimone, potè, in seguito,
raccontare l'eroica vicenda. Erano le ventitré circa e per il nostro eroe era il suo giorno onomastico. Aveva appena 25 anni. Oggi, Antonio Toscano è tra gli uomini più cari alla memoria dei
Coriglianesi, i quali, orgogliosi, hanno voluto onorarlo con una lapide posta nella sala d'ingresso del vecchio Municipio, nonché intitolandogli una strada ed una scuola media, nel centro
storico della città. Altri Comuni per siffatto figlio avrebbero eretto un monumento più grande.
Berardino Bombini
Ebbe la fortuna, a differenza di tanti, di nascere, nel 1789, in una famiglia illustre e benestante. Suo padre, avvocato, era stato sindaco di Corigliano e tre sindaci v'erano stati nel ramo materno. In casa, tra gli altri agi, potè fruire anche di una ricca biblioteca, quando i libri erano pressoché rari. Ricchezza e nobiltà di famiglia non furono, però, motivo di vanto ed occasione di dolce far niente. Accrebbero, anzi, in lui il senso della responsabilità e lo determinarono maggiormente nello studio. A Napoli, si addottorò, così, in legge e, come avvocato, superò il papà e divenne celebre. I suoi pareri furono sempre tenuti in gran conto e a lui, come ad un maestro, fecero riferimento i giovani avvocati del comprensorio. Se ne apprezzava la dottrina giuridica e l'umanesimo di fondo. Dagli avvenimenti tumultuosi dell'età in cui visse Berardino Bombini si tenne fuori e non per viltà, ma per naturale disposizione d'animo, che lo portò a professare rispetto, sempre, per i governi costituiti. Fu dell'avviso che bisognasse desiderare il progresso e per esso adoprarsi, ma usando la forza delle leggi e non la violenza delle sanguinarie rivoluzioni. Negli uffici comunali e distrettuali, che per elezione ricoprì, fu discreto e decoroso e nel loro espletamento profuse quella bontà d'animo, che lo rese esemplare come padre di famiglia. Pensò, e lo testimoniò coi fatti, che uomo pubblico ed uomo privato dovessero coincidere e che, perciò, non potessero trovarsi nella stessa persona vizi privati e pubbliche virtù. Alle cariche politiche dovevano, dunque, accedere solo i cittadini integerrimi. Fedele ad uno stile connaturato, esercitò l'avvocatura tra Corigliano e Cosenza, avendo scelto di rientrare e di vivere in paese, subito dopo la laurea. La grande città non lo aveva coinvolto né lo aveva mai sfiorato un pensiero di gloria. A Corigliano, ove era nato, volle spendere, così, la sua professione ed impiegare il suo sapere. Di lui tramandano che mai lasciò lo studio e mai smise di consigliare i giovani. Per questa sua esemplarità dovremmo onorarlo, come già fece il Consiglio comunale, in seduta solenne, il 31 agosto dell'anno 1869, ad una settimana dalla sua scomparsa. In quella occasione, Luigi Palma, chiamato a commemorarlo, affermò che "la sua vita merita di essere ricordata agli uomini maturi e scolpita nel cuore e nella mente dei giovani, che vi potranno imparare come la virtù dell'ingegno, la tenacità del volere, riescano ad essere utili a se stessi, alle famiglie, al paese, a procacciare riputazione e fama ed a lasciare dopo di sé onoratissima memoria" . L'Amato, che di quest'uomo ebbe tanta considerazione da annotarlo all'ultima pagina, quasi sigillo, della sua Crono-Istoria, riferendo l'unanime compianto, scrisse che con Berardino Bombini finivano "quegli uomini di stampo antico, che tanta gloria diedero alla patria" . Di lui, che pure profuse l'esempio della virtù come buon padre, prima, e, poi, come onesto professionista, nonché come pubblico amministratore, resta, purtroppo, solo una fievole memoria, a conferma di quanto parziali siano alcuni indirizzi municipali e scolastici.
Luigi Palma
Quando a sedici anni si portò a Napoli, per intraprendere gli studi di giurisprudenza, possedeva già un ottimo bagaglio di conoscenze. A Corigliano, infatti, ove era nato, il 19 luglio
del 1837, era stato alla rinomata scuola del Girone ed aveva già appreso i rudimenti del diritto dal Bombini, decano degli avvocati coriglianesi. Precoce e versatile, naturalmente portato a
studiare molto e a ritenere tutto, a vent'anni tagliò il traguardo della laurea e, d'allora, si aprirono per lui le porte del successo. I pubblici concorsi lo videro sempre primeggiare e le
sue pubblicazioni fecero puntualmente testo. Fu, così, docente negli istituti tecnici e preside, professore di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Roma e, più volte,
ebbe a coordinare speciali progetti, per incarico del Ministero di grazia e giustizia e di quello della pubblica istruzione. Luigi Palma scandagliò il diritto in tutte le sue pieghe, in ciò
facilitato da una straordinaria competenza storico-umanistica, nonché dalla familiarità con le lingue moderne; si applicò allo studio delle costituzioni e dei sistemi elettorali; indagò sui
rapporti tra Stato e Chiesa; ricercò le origini delle nazionalità; insegnò che la libertà è un bene supremo, ma scrisse anche che essa muore, laddove non sono garantiti i diritti di tutti. Di
fatto, si associò ai moderati di destra; idealmente s'incontrò coi liberali di sentimenti più avanzati. Alla politica guardò sempre con simpatia ed interesse, ma da studioso previde gli
sbocchi perversi del parlamentarismo e del partitismo. " È notissimo - scrisse - come il demos lasci da parte i migliori ed elegga, se non sempre i peggiori, certo i mediocri; gli uomini più
colti ed integri si allontanano dalla vita pubblica per l'impossibilità di lottare con gli intriganti, e il campo resta ai più corrotti". Non si era, purtroppo, sbagliato. Quando morì, il 3
gennaio dell'anno 1899, a Roma, Luigi Palma fu sinceramente compianto dai colleghi e dai discepoli. Era stato, negli ultimi anni, membro del Consiglio superiore della pubblica istruzione,
Preside della facoltà di giurisprudenza nell'ateneo romano ed, infine, anche, apprezzato Consigliere di Stato. La Casa reale lo aveva, tra l'altro, prescelto come precettore del futuro Re
d'Italia, Vittorio Emanuele III. II mondo accademico lo onorò con una lapide speciale in un'aula della biblioteca universitaria ed altra lapide posero i suoi concittadini sulla strada ov'egli
era nato e che ora a lui s'intitola; più tardi, a suo ricordo, vollero anche collocare un mezzo busto marmoreo all'ingresso dell'ex-ginnasio Garopoli. Per l'occasione, l'avv. Domenico
Persiani disse di lui: "Altero ed invitto, non piegò la schiena alla strisciante cortigianeria verso i potenti; niente per sé chiese ad alcuno" . Oggi, porta anche il suo nome il locale
Istituto tecnico commerciale. A Luigi Palma la vita non lesine certo gli onori, ma a lui diede pure dispiaceri: non ebbe la gioia d'un figlio e perse, assassinato, il fratello Antonio,
ingegnere e già sindaco della città. Il sogno segreto di occupare un seggio al Parlamento o al Senato non si realizzò. Nella dedica di una sua opera scrisse: "Ai miei concittadini di
Corigliano Calabro"
Vincenzo Valente
I contemporanei lo dissero buono e simpatico in un fisico inelegante e tozzo. La faccia asimmetrica e gli occhialoni da miope, insieme ai grossi mustacchi, gli conferirono una espressione severa. Essenziale nei modi, fu naturalmente gioviale in famiglia e con gli amici, ma rapidamente s'accendeva, se si discuteva di arte e di musica. All'occorrenza, sferzò i cantanti impreparati e non esitò a mettere alla berlina i critici presuntuosi. Fu senz'altro uomo intelligente e mai seppe o volle arricchirsi. Vincenzo Valente nacque a Corigliano il 21 febbraio del 1855, ma qui stette poco. Per assecondare, infatti, la sua inclinazione, i genitori acconsentirono di mandarlo, fanciullo ancora, a studiare musica nella bella Napoli, presso una scuola, allora, abbastanza accreditata. E lui, da subito, non tradì di certo le aspettative familiari, se, appena quindicenne, pensò di cimentarsi nella composizione di due messe, operazione non facile, e di qualche canzone, le quali cose furono tali da rivelarlo al pubblico. Più tardi, nel 1879, mise su famiglia e nel 1910, si trasferì in Francia, tra Parigi e Marsiglia, dove insegnò e diresse una orchestra. V'era andato con tante speranze, ma vi rimase poco. Ripartì deluso e senza quattrini
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Francesco Dragosei
L'intraprendenza gli valse il titolo di cavaliere Dragosei, la simpatia gli procurò quello di don Ciccio. Comunque a lui si guardi, si resta affascinati; su qualunque fatto si indaghi, ci si imbatte in lui. La sua vita fu così pubblica e di tanti interessi, che ad ogni passo si intreccia con la storia della città, fino a fare con essa, talvolta, un tutt'uno. Nacque a Corigliano il 18 febbraio del 1859 e qui crebbe in una famiglia relativamente agiata, anche se prestissimo divenne orfano, avendo perso il papà, ventunenne e tenente della Guardia nazionale, per mano dei briganti. Estroverso ed emancipato, amante delle novità, fu, a suo modo, popolano ed aristocratico. Fece di tutto: lavorò con le mani, con la mente e col cuore ed in ogni sua cosa lasciò il segno. Tanti coriglianesi realizzarono illustri e belle imprese, lui compì gesta, senz'altro, irripetibili. Sedette tra i banchi del Consiglio comunale per 35 anni e fu, fra i colleghi, sempre in prima linea. Propose e realizzò, fu attaccato e, più spesso, attaccò. Nazionalista ed interventista e, poi, fascista, fu dal partito espulso, per aver auspicato al suo interno un po' di pulizia. Amò il bel canto e la musica e questo amore cercò di trasmetterlo anche ai giovani. Perciò, costituì e diresse, per 40 anni, una Banda musicale, che fece bella mostra di sé nelle piazze e procurò a molti un mestiere per vivere. Don Ciccio coltivò anche il teatro e, per ospitare compagnie ed attrici, spese non poco del suo; e spese ancora di più, una fortuna, l'equivalente di 30 ettari di proprietà familiare, per impiantare a Corigliano un cinema, il primo in tutta la Calabria. Comprò nel 1905 un proiettore ed una macchina per la produzione di energia elettrica e, nel 1909, un nuovo proiettore, quest'ultimo più sofisticato, dal momento che il primo impianto era scoppiato nel corso della serata inaugurale. La sua creatura più nobile, fiore all'occhiello suo e gloria della città fu, però, II Popolano, il periodico delle mille battaglie, che il cavaliere progettò e firmò, quale direttore responsabile, dal dicembre del 1882 al maggio del 1930. lo stampò nella sua tipografia, la prima a Corigliano, ed attorno ad esso raccolse studenti e professionisti, il meglio del paese e dei dintorni. Nato "per discutere alla buona i bisogni della cittadinanza" , il giornale adempì senz'altro alla promessa. Trattò di cronaca e di costume, di arte e di cultura, ma, soprattutto, di politica; in genere, graffiò e fece male. Per i Coriglianesi sparsi nel mondo fu anche strumento di informazione e di raccordo. Molti cercarono di imitarlo, ma nessuno vi riuscì. Quando il fascismo lo soppresse, terminò la più bella esperienza giornalistica di Corigliano. Un po' Francesco Dragosei morì allora, insieme al suo giornale; poi, consumato dagli anni e dai mali, si spense del tutto il 9 ottobre del 1938. Pragmatico e sognatore, tre volte sposo, legato alla sua città ed insieme infaticabile viaggiatore, geloso della famiglia, eppur galante, resta per i Coriglianesi un mito. Vincenzo Tieri, uomo di cultura e di esperienza, scrisse di lui così: "Dragosei fu per il suo paese una fonte di energia, di operosità, d'iniziative ovunque da lui strenuamente difese: in piazza, in consiglio comunale, sul giornale. La sua cultura non era vasta né profonda, ma infinitamente varia; inquiete e instancabili erano le sue curiosità intellettuali e sociali, acutissimo il suo fiuto di quel che andava e di quel che non andava, numerosi gli interessi materiali e spirituali che ne facevano il promotore delle più importanti attività cittadine" . Avergli dedicato una strada, è veramente poco, niente.
Francesco Pometti
Mi sovviene d'un pensiero leopardiano, nel quale si sostiene che, a scorrere la vita degli uomini illustri, se ne trovano veramente tanti, i quali hanno perso il padre nella prima età. A Francesco Pometti, che era nato l' 8 gennaio del 1862, nel rione della Cavallerizza, tale sorte toccò all'età
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Fortunato Bruno
In epoca in cui censo e casato ancora decidevano il destino dei più e ai giovinetti di origine popolare toccava la via della campagna o dei mestieri, lui sfuggì alla regola. Figlio di un commerciante di stoffe e di una casalinga, frequentò la scuola elementare ed il ginnasio a Corigliano, dove era nato il 31 dicembre del 1877, per proseguire, poi, gli studi liceali a Napoli ed, infine,
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Costabile Guidi
Sui campi di battaglia del primo conflitto mondiale lasciò la giovinezza ed anche un occhio, cosicché, costretto in ospedale per le cure del caso, tornò, poi, in paese, nel corso del 1919. Aveva 28 anni ed una solida laurea in legge, nonché la passione della lettura e l'attitudine a scrivere. La decorazione al valore conferitagli e la consapevolezza di aver contribuito ad una Italia più grande e più forte lo rendevano oltremodo fiero
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Vincenzo Tieri
Ebbe spiccato il senso dell'intraprendenza, se è vero che, a 13 anni, organizzò, cosa originale per i tempi e per il paese, un congresso di ragazzi, ed alla stessa età progettò e diresse per i suoi coetanei, il giornalino Giovinezza. Presto, dunque, manifestò egli i segni d'un protagonismo costruttivo e presto sentì forte il trasporto verso il mondo della carta stampata, tanto da trascorrere non poco del suo tempo nella effervescente tipografia de II Popolano, a far da operaio o giornalista, a seconda
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