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Il Fenomeno del 1993

di Ernesto Paura

Dopo le votazioni del 21 ottobre 1860 per il plebiscito, che doveva sancire l'unione delle regioni continentali del Regno delle due Sicilie al Piemonte, a seguito della fortunata impresa garibaldina e l'intervento piemontese, la prima vera e propria consultazione elettorale per eleggere il primo Parlamento unitario si ebbe il 18 febbraio 1861 e da cui uscì la prima legislatura della nostra storia patria.

Ma, mentre oggi alle urne vanno uomini e donne maggiorenni, in epoca ormai remota e comunque dopo l'Unità d'Italia, il diritto al voto l'avevano soltanto i ricchi e gli istruiti, naturalmente (dato i tempi) solo di sesso maschile.

Qualche anno dopo si passò a far votare prima tutti quei cittadini, sempre di sesso maschile, a condizione che sapessero, però, leggere e scrivere, e, successivamente, anche gli analfabeti.

Perché anche alle donne venisse riconosciuto il diritto al voto, bisognerà attendere molti anni ancora.

Tale evento maturò, infatti, a seguito della seconda guerra mondiale in occasione del "Referendum" del 1946 e, subito dopo, per le elezioni del 1948 che segnarono l'avvio dell'Italia repubblicana.

Altro passo in avanti in materia elettorale, l'Italia lo fece nel 1976 allorquando venne concesso il voto anche ai diciottenni. Tale evoluzione delle leggi in materia segna e rivela, comunque, il modo di pensare di un epoca.

Ma andiamo indietro nel tempo ritornando al febbraio 1861 per vedere come e chi votava a quell'epoca.

E' da rilevare subito che la legge elettorale (la 4513 del Regno d'Italia), datata 17 dicembre 1860, era alquanto limitativa.

Il suo contenuto faceva, infatti, espresso riferimento ad elezioni "a suffragio ristretto" permettendo, di conseguenza, il voto ai cittadini italiani che avessero compiuto i 25 anni, che fossero "alfabetizzati" (ossia che sapessero leggere e scrivere) e che pagassero "un annuo censo per imposte dirette di almeno 40 lire".

A quell'epoca la popolazione era di circa 21 milioni. Tenuto conto, però, che il 70 per cento degli italiani non sapeva né leggere né scrivere, che già l' "alfabetizzazione" restringeva il numero dei votanti a circa un milione e mezzo di cittadini e che, inoltre, non si poteva far leva né sulle donne, in quanto tali, né su tutti gli altri cittadini con meno di 25 anni di età e su tutti coloro i quali non pagavano tasse per un'imposta complessiva superiore alle 40 lire, finirono col votare poco più di duecentomila italiani.

A quella votazione seguirono, infatti, molte lamentele e a quanti ebbero anche la forza d'animo di obiettare che una simile votazione era decisamente poco democratica, coloro che facevano parte della classe che aveva in mano le leve della nazione, cioè i ricchi e, automaticamente, gli istruiti, rispondevano citando Cicerone, il quale nel suo "De Repubblica" scrisse: "Quando i buoni valgono più dei molti, i cittadini si devono pesare e non contare".

Tesi che, peraltro, in talune circostanze, ancora oggi tende a far capolino.

Tuttavia questa legge "per censo" rimase in vigore per circa ventuno anni, fino a quando, cioè, venne superata da una nuova legge elettorale, la n. 593 del 22 gennaio 1882, definita "a suffragio allargato" e che introdusse modifiche sostanziali al sistema precedente.

Infatti, il limite di età fu abbassato ai ventuno anni, non si tenne più conto di tasse pagate o di "tetto" di tasse da pagare per potere essere ammessi al voto, introducendo, inoltre, la specifica richiesta del titolo di studio, cioè quello minimo della licenza elementare.

Innovazione, questa, che aprì, ovviamente, le porte dei seggi ad una più ampia platea elettorale, in considerazione anche del fatto che all'istruzione cominciarono ad avvicinarsi anche quei cittadini appartenenti ai ceti più bassi. Non pochi contadini e operai riuscirono già a frequentare la scuola e, quindi, ad "alfabetizzarsi".

Le prime votazioni, secondo le norme della nuova legge del 1882, si svolsero nell'ottobre dello stesso anno. Esse portarono -come è possibile rilevare dalle cronache dell'epoca-a grosse e, forse, inaspettate novità, come -per esempio- la elezione a Milano del "radicale" Antonio Maffi, il quale fu il primo deputato operaio, così come, in quella stessa elezione, divenne deputato il primo socialista, l'imolese Andrea Costa, ex anarchico, che, alcuni anni dopo (nel 1912) diventerà anche vicepresidente della Camera.

E fino al 1912 che la legge 593 del 1882 rimase in vigore, allorquando nuove disposizioni legislative consentirono anche agli analfabeti di votare. Non tutti, però, in quanto erano ammessi ad esprimere le loro preferenze soltanto gli analfabeti che avessero compiuto il trentesimo anno di età, mentre gli "alfabetizzati" potevano votare (e questo - come già detto- con la legge del 1882) appena raggiunti i ventuno anni.

La differenza di criterio derivava dal fatto che si sperava di trovare nel cittadino trentenne, anche se analfabeta, una preparazione "civica e sociale" che rendesse logico il suo voto. Una "maturità" che poteva non avere, dunque, nulla a che fare con il titolo di studio.

Giova qui, inoltre, ricordare, facendo ancora un piccolo passo indietro nel tempo, che già nel 1911 si pensò anche come portare alle urne le donne.

Per estendere anche ad esse il diritto di voto, Giovanni Giolitti, proprio nel 1911 e nel corso di una seduta storica alla Camera, appoggiò con forza la cosiddetta "operazione-donna"'.

Una battaglia, questa, che verrà, però, vinta soltanto nel 1945 e, cioè, trentaquattro anni dopo, superando, così, tutte le leggi elettorali dall'Unità d'Italia alla prima consultazione popolare dopo la Costituzione, che avevano sempre tenuto in considerazione il fatto che il voto doveva essere solo ed esclusivamente riservato "ai cittadini di sesso maschile", fossero pure analfabeti o semi-analfabeti. Si trattò, quindi, di una vera e propria conquista sociale più che una conquista femminile.

Si passò, dunque, dalla "caccia all'analfabeta" a quella "alla donna" e, in seguito, "al diciottenne".

Quella all'analfabeta, come vera e propria preda da catturare, risale alla consultazione elettorale del 1912. Protagonisti i partiti, i loro candidati, e naturalmente, i diretti interessati, ossia gli italiani che non sapevano né leggere né scrivere, ma che la nuova legge autorizzava, adesso, a votare.

In quella elezione, gli ammessi al voto (ultratrentenni e analfabeti) dovevano esprimere le loro preferenze con un metodo diverso da quello degli altri italiani. Costoro, invece di consegnare la scheda scritta e piegata ai presidenti del seggio elettorale, dovevano dichiararsi analfabeti e, a loro, il presidente consegnava una busta timbrata in cui potevano inserire un cartoncino su cui era già stampato il nome del candidato che preferivano.

Ma proprio perché i candidati inseguivano gli elettori fino ad un passo dalla cabina, quelle del 1912 furono elezioni piuttosto movimentate e che fecero perciò registrare anche qualche disordine.

Sette anni più tardi, all'indomani della prima guerra mondiale, una nuova legge modificò le cose, ma fino ad un certo punto. Abolita l'ammissione al voto del solo analfabeta trentenne, i ventuno anni furono richiesti "per tutti i cittadini di sesso maschile" e non soltanto per quelli che sapessero leggere e scrivere. Fu, però, ugualmente caos, ma in misura minore perché in quegli anni era anche diminuito il numero degli analfabeti.

Scaturì da tutto ciò l'ideazione del sistema dell'espressione del voto attraverso un segno di croce sul simbolo del partito prescelto. Un sistema che metteva sullo stesso piano nobili, ricchi, quanti avevano la prima elementare ed analfabeti. Altre modifiche ancora sono seguite nel corso degli anni, ma, tra queste, molto interesse ha suscitato quella con la quale nel 1976, il voto venne concesso anche ai diciottenni.

Essi hanno costituito la grande incognita delle elezioni degli ultimi anni, con i "persuasori occulti" dei vari partiti che su di loro si sono lanciati per tentare di accaparrarsene il voto.

Altra innovazione, sempre in materia di legislazione elettorale, si ebbe, ancora più recentemente, con la legge n. 81 del 25 marzo 1993, che detta le norme per la "elezione diretta del sindaco, del presidente della Provincia, del Consiglio comunale e del Consiglio provinciale" (di cui si traccia un'ampia sintesi in un capitolo successivo).

La prima importante novità introdotta da questa normativa riguarda, appunto, la figura del Sindaco e la consistenza numerica dei consigli comunali. Il numero dei consiglieri viene, infatti, ridotto rispetto al passato, variando da un minimo di 12 ad un massimo di 60, secondo la popolazione residente nel Comune. Tra essi, però, non va conteggiato il Sindaco, il quale ricopre una carica amministrativa che si aggiunge a quella dei consiglieri eletti.

Un altro rilevante cambiamento (in questo caso non è corretto parlare di innovazione in quanto si è tornati a ripristinare una norma precedente al 1964) riguarda il mandato del Sindaco e del Consiglio, ridotto da cinque a quattro anni.

Una delle principali novità apportate dalla legge in questione riguarda l'introduzione del sistema maggioritario nei Comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti.

Altro notevole cambiamento operato dalla legge 81/1993 riguarda il tempo assegnato alle operazioni di voto, le quali così come prescrive l'art. 11- "si svolgono nell'arco di un giorno (di domenica) dalle ore 7 antimeridiane alle ore 22".

Altre ulteriori novità introdotte da tale legge riguardano le "competenze degli organi comunali e provinciali".

Al riguardo sono state infatti, apportate numerose modifiche alla legislazione precedente. Abbastanza netto viene innanzitutto definito il ruolo assegnato al Sindaco e al Presidente della provincia, i quali sono rispettivamente "responsabili dell'amministrazione del Comune e della Provincia".

Essi, infatti, "rappresentano l'ente, convocano e presiedono la Giunta, nonché il Consiglio quando non è previsto il presidente del Consiglio, e sovrintendono al funzionamento dei servizi e degli uffici e all'esecuzione degli atti".

Nel panorama legislativo italiano, non meno rilevante, sul piano innovativo, è, inoltre, la legge 8 giugno 1990, n. 142 sull'ordinamento delle autonomie locali.

Si tratta di una disciplina dai forti connotati politici, che offre agli amministratori l'opportunità di misurare la capacità di immaginare e costruire nuovi modelli di funzionamento degli enti locali.

Una legge che prevede istituti di partecipazione popolare alla vita amministrativa e che da concretezza alla trasparenza dell'azione degli organi dell'Ente. Perciò di uso comune dei cittadini, che sono i veri protagonisti, prima che destinatari dei nuovi principi normativi.

Ciò non è di poco conto se si considera che la legge n. 142, infatti, modifica sostanzialmente l'organizzazione dell'Ente territoriale e il rapporto tra amministrati e amministratori proprio attraverso l'esaltazione del valore di "autonomia" dell'Ente territoriale.

Tocca, quindi, al Comune riempire di contenuti gli istituti di partecipazione indicati nel capo III della legge, prevedendo a che livello e per quali atti tali istituti potranno attivarsi.

Quello relativo alla partecipazione popolare è, dunque, il problema politico più delicato.

Tale tipo di partecipazione dei cittadini alla vita amministrativa dovrebbe avere - in buona sostanza - tre caratteristiche essenziali: essere tendenzialmente totale e, cioè, capace di coinvolgere la totalità dei cittadini; essere tempestiva, inserendosi, cioè nel procedimento di formazione degli atti amministrativi secondo tempi prestabiliti; impegnare gli organi di gestione del Comune a motivare sulle volontà espresse attraverso gli organismi di partecipazione.

Va detto, infine, che, tra non molto, dovrebbe imboccare la dirittura d'arrivo un apposito provvedimento legislativo al fine di consentire il voto anche agli emigrati. Un diritto che gli italiani all'estero, da molti anni ormai, aspettano di potere esercitare. Infatti, attualmente in Italia, a differenza delle grandi democrazie, non esiste una legge che consente il voto agli emigrati.

 

Una situazione che, in passato, ha fatto comodo ai due principali partiti della Prima Repubblica (Dc e Pci), ma che, oggi, non ha più alcun motivo di persistere, poiché sono cadute le ragioni e, soprattutto, le preoccupazioni sulle quali si reggeva in virtù di un tacito accordo: da una parte il Pci, il quale ha sempre avvertito il timore che il voto agli emigrati favorisse il nostalgismo neofascista e la capacità di influenza dei partiti di governo; dall'altra la Dc che, ritenendo giusta tale riserva, non si è mai preoccupata di contraddire il principale partito di opposizione. Ora che tutti i gruppi politici in seno al Parlamento si dicono d'accordo con l'impegno assunto dal ministro degli Esteri, Lamberto Dini, di varare una legge in tal senso, non è escluso che, tra qualche mese, si possa passare alla sua discussione nell'aula di Montecitorio. Se non si registreranno colpi di scena, i tre milioni di cittadini italiani all'estero (tanti sono quelli risultanti nell' "elenco speciale" dell'anagrafe istituita da circa nove anni in virtù della cosiddetta "legge Tremaglia") dovrebbero finalmente, potere esprimere il loro voto già dalle prossime elezioni politiche. 

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